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Super 8

Regia di J.J. Abrams vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Super 8

di lussemburgo
10 stelle

Ha aspettato la terza pellicola cinematografica, JJ Abrams, dopo i due efficaci lavori su commissione di derivazione seriale e televisiva (Mission: Impossible III e Star Trek), per esprimere una personalità di intenti che nei film precedenti era asservita al franchise. Solo con Super 8 Abrams diventa regista e sceneggiatore e, quindi secondo la vulgata, autore completo di un film coprodotto dalla sua Bad Robot assieme alla Amblin di Steven Spielberg. Nell’associazione delle due icone delle rispettive case di produzione, il robottino campestre e il volo in bicicletta di Eliot e E.T., è già sintetizzato il senso di un film che si vuole omaggio al modello cinematografico ed industriale dell’autore, nella cui opera è reperibile, sin dagli esordi, una cinefilia non evidente e un costante riferimento al regista di Indiana Jones.
Ed è proprio nella ricerca di una sintesi tra temi personali e influenze spielberghiane che si muove tutto il film, tra nostalgie retrò e intromissioni digitali, tra melò amorosi e dilemmi familiari nascosti all’interno di una trama fantascientifica che flirta con il film d’azione e di devastazione. L’ambientazione nel 1979 (l’incidente atomico di Three Mile Island nominato in tv) permette di fare un immediato collegamento mnemonico ed estetico ai Goonies e a Explorers, prodotti da Spielberg, e, soprattutto, ad E.T.. Perché quella storia di un alieno caduto sulla terra e perseguitato dagli scienziati che non riescono a capirlo ritorna quasi intatta in Super 8 in una versione dark, una favola che ha perso l’innocenza dell’affabulazione infantile per evocare gli incubi insanabili dell’imminenza dell’età adulta. Rispetto al modello, Abrams sceglie la via dell’ellisse e dell’evocazione (gli effetti più che le cause) nascondendo le fattezze dell’alieno, come già Spielberg in Incontri Ravvicinati (o nello Squalo), difatto tingendo anche di gotico la storia.

Torna la provincia americana, l’ambientazione privilegiata dei racconti di quegli anni, come nei film citati o in Poltergeist, il punto di vista privilegiato dell’infanzia al suo scadere, in cui la patina di innocenza non è che incrinata dalla desolazione del dolore su cui il film si apre per la perdita della madre. Questo trauma iniziale, parallelo alla morte del genitore che inaugura Star Trek (o dell’amica con cui prende il via la parte d’azione di Mission: Impossible III), aggiorna la famiglia monoparentale di Eliot (solo divorziata) e introduce il cast principale (i compagni d’avventura di Joe) assieme agli incomprensibili contrasti tra i grandi (i genitori).

Tutto ciò serve da sfondo all’introduzione di elementi mutuati dal personale percorso autoriale di Abrams, con il film nel film e la presenza di un mostro altamente distruttivo (Cloverfield, da lui voluto e prodotto), un acerbo triangolo amoroso (dettaglio ossessivamente ricorrente, anche in Lost) e il conseguente melò, l’introduzione con salto temporale (spesso avanti, ora, come in Star Trek, in dietro), inizio su un disastro (ferroviario qui come aereo in Lost e Fringe, oppure spaziale in Star Trek), l’elemento fantastico (tutti i film e le serie create o prodotte, in proporzione variabile), il numero 47 (Alias), la rivincita dei nerd, il disagio familiare, la scoperta di una realtà differente da quella immaginata e sempre peggiore, tale da costringere il protagonista ad un doloroso sforzo di adeguamento. E il deficit di comunicazione che attanaglia i personaggi, soprattutto nei rapporti con i genitori, e la confusione nella trasmissione delle informazioni sugli eventi si amplifica nel contesto temporale prescelto, così poco interconnesso, legato a mezzi di trasmissione antiquati e lenti, al tempo di sviluppo delle pellicole e di disponibilità dei telefoni pubblici, al ritardo dei rapporti e dei dialoghi.

Il sottotesto cinefilo e citazionistico si corrobora con il pretesto drammaturgico della messinscena di un film amatoriale da parte dei ragazzi che diventa involontaria testimonianza della fuga del mostro, segregato nella famosa Area 51 ben nota ai fan di X-Files o di Roswell (oppure di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo), film nel film che inserisce un metatesto armonizzato alla volontà di riferimento espressa da tutta la pellicola (come, per esempio, dall’intera serie Lost), un horror citazionistico con zombi su ironica base hard-boiled. E il titolo stesso, che sottolinea la presenza di un supporto surclassato da più moderne tecnologie, rinvigorisce l’aura retrò dell’intero progetto che, allora, diventa anche metafora dei rapporti tra il digitale e l’analogico con quel mostro che si nasconde quasi costantemente, che cerca di non contaminare il film con la sua presenza, necessaria ma ingombrante, che si muove nascosto sottoterra e la cui figura intera viene mostrata tardi, come in Cloverfield dove, però, tutto era digitale, filmato e devastazione, e il film nel film era il film stesso, il solo residuo leggibile della catastrofe. Il mostro emette sonorità metalliche come i Transformers, ma il film opta per una pellicola sporca e per la sineddoche a contrasto con l’estrema e totale visibilità dei lucenti eroi di Bay (pur prodotti da Spielberg e scritti da Kurzman e Orci, sodali di Abrams in vari lavori) e, alla fine, l’alieno non cerca di rimanere tra gli umani e torna al suo futuribile mondo di metalli intelligenti.

Nel contrasto e nell’armonia tra tecnologie, tra le diverse età dei personaggi e del cinema, tra l’ispiratore e l’autore il film si costruisce per dissidi e omaggi, tra evidenze e omissioni, attraverso la novità e la nostalgia. Abrams arriva a recuperare non solo ambienti e tipologie ma anche tic, movimenti di macchina dello Spielberg coevo (dolly verso l’alto a inquadrare uno sfondo nascosto di un terrapieno) adesso dismessi ma tipici del tempo e dell’autore, e perfettamente ricontestualizzati e abbinati al proprio modus filmandi (primi piani e macchina mossa). Accomuna i due registi la volontà di unire intimo e spettacolare, di costruire una perfetta macchina cinematografica che non rinunci alla dimensione privata e che, anzi, in essa trovi il motore più forte del dinamismo dell’azione. Senza il fragore teppista e umoristico di Tarantino, il riciclaggio postcinematografico di Abrams non è distante da quello del collega di Pulp Fiction (già cooptato come attore in Alias), benché più umilmente sottomesso alla morale della classicità e del predominio della coerenza della scrittura. Ed è in questa sincerità d’intenti che il progetto di Super 8 assume un’autonomia personale che lo allontana dal solo e semplice esercizio calligrafico di recupero, di semplice ritorno “al passato” con riscrittura feticistica a cui, superficialmente, parrebbe apparentarsi. Perché, a volte, anche la superficie ha un’anima, dopotutto.

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