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Il mio nome è Nessuno

Regia di Tonino Valerii vedi scheda film

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La recensione su Il mio nome è Nessuno

di Lehava
8 stelle

l mio nome è Nessuno - ovvero il western mitico e la sua decostruzione

Nessuno, come Ulisse per Polifemo, "uno nessuno e centomila", eppure unico, il deus ex machina. Si aggira scanzonato per una frontiera immaginifica e mitica, senza tempo e senza spazio. O meglio, in un tempo ed in uno spazio delineati e delimitati dalle azioni stesse: è un giorno eterno quel 03 Giugno 1899, inizio estate e fine secolo. Ed il Texas (indicato sulla locomotiva) potrebbe essere il Colorado o l'Arizona delle costruzioni indiane fatte di fango e paglia; oppure il New Mexico delle dune bianchissime, o ancora il Missouri dei grandi fiumi sonnolenti.

C'è tutto Sergio Leone (tranne che nei titoli di testa e di coda), non me ne voglia Valeri, ma sembra un po' il compito di uno studente troppo corretto dal professore; oppure il compito di uno studente che per compiacere il professore ne assume stile e tematiche. Ecco allora i piani lunghi intervallati da primi piani, con cambi di immagine spesso repentini (molto montaggio...); i dialoghi ridotti all'osso; la musica come elemento narrativo e non accompagnatorio; l'accuratezza della fotografia ...

Ma è un Sergio Leone crepuscolare, e soprattutto ironico ed autoironico, filosofico ma non malinconico. In una parola leggero. Nella faccia da cinema (ma uno con una faccia così cosa poteva fare, se non il cinema?) di Terence Hill. Che fa scaldare la padella nella fornace a carbone del treno, che piglia i pesci con le mani, che vuole per forza scrivere la Storia lui che non ha nemmeno una storia (ed infatti la farà scrivere ad altri). Nellle note strepitose di Morricone e quel tema acciaccato e divertito dell'ottavino. Ma anche nel frullato sporco del tema dei 150 con quel richiamo (ma è solo un' eco, una cornetta con sordina, non uno squillo cristallino) all' "arrivano i nostri", peccatoche  quei "nostri" non siano i buoni. O forse lo sono? Perchè il mondo si è fatto confuso, non è più tutto bianco o nero come quando le diatribe potevano chiarirsi con due colpi di pistola, alla John Ford. O invece, gratta gratta, il mondo è sempre lo stesso? Perchè "un uomo che è un uomo deve credere a qualcosa", e questa è la verità più verità che si possa dire. La fede, qualsiasi essa sia, come motore attivo e vitale.

C'è la morte di un certo western, già decretata da Peckinpah, omaggiato apertamente non solo nella citazione de "Il mucchio selvaggio" ma anche, tecnicamente, nell'utilizzo frequente rallentatore (perdonatemi l'ignoranza ma proprio non li sopporto, peggio la velocizzazione dell'immagine). Perchè "un eroe non può sfuggire al destino".   E quale sarebbe il destino dell'eroe? Morire. Come Henry Fonda nel duello. Ma per poi rinascere, Araba Fenice sulle sue ceneri, diverso eppure sempre uguale. Come certo cinema; perchè i "Sentieri selvaggi" sono diventate strade asfaltate, il duello una "giostra del saraceno" ed il "Mezzogiorno di Fuoco" un pomeriggio nella "Casa magica" dove realtà ed immagine di essa sono un tutt'uno (gli specchi) e luci ed ombre si fondono nel chiaroscuro. C'è la Storia nei fermi immagine che richiamano le fotografie sui libri, a colori oppure no. Ma una Storia che chissà, forse nessuno leggerà mai. E allora? Cosa ci resta alla fine di tutto? Noi stessi e la nostra fede, nel soliloquio finale molto metafisico. E nell'eterno cerchio delle nostre vite dove la fine, spesso, si confonde con l'inizio (la scena del barbiere).

E allora? Cosa ci resta alla fine di tutto? Quello che conta veramente: noi stessi e la nostra fede. Nel soliloquio finale, molto metafisico. Perché la Storia e con essa le nostre vite, non sono altro che un eterno cerchio. Dove la fine, spesso, si confonde con l'inizio (la scena del barbiere). O forse, la fine è solo l'inizio.

Che dire? Grande cinema, forse imperfetto, ma grande.

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