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Harry Potter e i doni della morte. Parte II

Regia di David Yates vedi scheda film

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La recensione su Harry Potter e i doni della morte. Parte II

di LorCio
7 stelle

Harry Potter e i doni della morte è la cerimonia degli addii di una generazione. Raramente capita di avere a che fare con una saga che abbraccia una generazione di spettatori che si riflette nelle storie narrate. Il caso di Harry Potter è particolare, perché i bambini che all’epoca del primo film avevano un’età simile a quella dei protagonisti si ritrovano oggi ad essere gli stessi ragazzi dell’ultimo film.

 

Un ragazzo che, volente o nolente, è cresciuto con quei film, con quelle storie, con quei personaggi, con quel linguaggio divenuto gergo comune (i babbani, i vari wingardium leviosa, gli espectus patronus e via discorrendo, Tu-sai-chi), non può non provare una specie di malinconia di fronte al capitolo finale della più importante saga dei nostri anni. Oltre ad essere un film in sé, I doni della morte è la resa dei conti della nostra generazione: è l’ultimo fuoco dell’infanzia e allo stesso tempo il primo bengala del tempo che verrà.

 

Sembrerà esagerato, ma secondo me è così: per quanto la saga non abbia suscitato l’interesse di tutti (per fortuna), è indubbio che per una parte di noi quella storia rappresenti un pezzo di crescita. Più dei libri, perché i film, bene o male, restano a volte più indelebili della pagina scritta. Forse ci si dimenticherà di Harry Potter e, per dire, degli effetti speciali che oggi ci sembrano strabilianti e fra qualche anno saranno semplicemente superati. Ma un posto in una zona della stanza dei ricordi, probabilmente, se lo merita. Arrivando a questa ultima parte, piena, secca, convulsa, decisiva, emergono tutti i pregi e tutti i difetti che hanno caratterizzato gli altri sette film nel corso degli anni: se la gestione Columbus privilegiava il passaggio da infanzia ad adolescenza, la parentesi Cuaron insisteva sull’aspetto più irrequieto ed inquietante e la zampata di Newell si contraddistinse per rassicurante stile british, al quarto cartellino timbrato Yates conferma il proprio ruolo di regista al servizio della macchina produttiva e narrativa, preferendo di mantenere un basso profilo e limitandosi a fotografare gli eventi con diligenza e fedeltà alla parola.

 

Sarebbero stati maggiormente interessanti una lettura personale e uno stile riconoscibile, ma non so fino a che punto si fosse interessati a ciò (parliamo di un film che parte da uno zoccolo duro di proporzioni gigantesche, ancor più rafforzato dal fatto che si tratta dell’ultimo, attesissimo capitolo). Poco male, nonostante qualche elemento non sempre convincente (quel bianco infinito in cui sono immersi Harry e Silente al bivio tra la vita e la morte ha un che di new age di seconda mano; due o tre snodi narrativi sono discutibili e/o convulsi specialmente per quanto concerne la simbiosi magica tra Voldemort e Harry) e qualche domanda di troppo che lo spettatore distratto si pone: resta tutto il resto, il comparto tecnico delle grandi occasioni (e ci mancherebbe altro), con scenografie e trucchi incredibili, la bella fotografia di Eduardo Serra e le evocative (John Williams docet) musiche di Alexander Desplat.

 

E poi? E poi ci sono gli attori, che a conti fatti rappresentano davvero il valore aggiunto della saga. I tre ragazzi riescono a superare la sindrome di essere legati per sempre ai propri personaggi, attestandosi come attori buoni anche e soprattutto per altre produzioni di diverso tipo. Reggono ovviamente lo strascico ai super-comprimari, che continuano a divertirsi nei panni di maghi e stregoni: a Maggie Smith bastano due giri di bacchetta per confermarsi la più grande attrice britannica degli ultimi cinquant’anni; le partecipazioni marginali di Robbie Coltrane, John Hurt, Emma Thompson, Jim Broadbent, Gary Oldman, Julie Walters, David Thewlis, della new entry Claràn Hinds e compagni sono una goduria; Ralph Fiennes è un Voldemort che si fa archetipo del Male.

 

Ma a lasciare davvero il segno sono Michael Gambon nei panni di Silente e un titanico e fragilissimo Alan Rickman come Severus Piton. È merito loro se l’aspetto più appassionante del film è quello melodrammatico. All’origine di molte cose (se non di ognuna) c’è un amore perduto. E poi ci sono gelosie represse, oscure frequentazioni, segreti e bugie, morti annunciate, lacrime insospettabili. Eh sì, alla fine della fiera, al di là di quel Voldemort al di là del bene e del male e dell’irraggiungibile Silente, è Piton il personaggio più shakespeariano, tragico, umano e memorabile di tutta la storia. Che finisce qui, perché ogni cosa deve finire, perché ogni cosa è giusto che finisca.

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