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Regia di Danny Boyle vedi scheda film

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Fanny Sally

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su 127 ore

di Fanny Sally
7 stelle

Danny Boyle racconta una drammatica storia di sopravvivenza e di rinascita, trovando in James Franco un vibrante protagonista, capace di passare dalla sbruffona esuberanza alla lucida disperazione, tra rimpianti e ricordi, rinunce e ripensamenti.

Il giovane escursionista Aron Ralston durante una gita in solitaria presso l’impervio Blue John Canyon dello Utah finisce per scivolare in un angusto crepaccio, restando incastrato con il braccio destro tra due rocce. Lontano da qualunque centro abitato, gravemente ferito, esposto al caldo diurno e al gelo notturno, a corto di acqua e cibo, impossibilitato a muoversi, tenta di ingegnarsi con le poche risorse a disposizione nel suo zaino per sfuggire al suo mortale destino, affidando nel contempo le sue speranze e paure ad una videocamera.

 

Basandosi sul libro autobiografico dello stesso protagonista, dall’eloquente titolo “Between a Rock and a Hard Place” (espressione che in inglese indica letteralmente la situazione e metaforicamente il trovarsi di fronte ad una decisione critica), Danny Boyle racconta una drammatica storia di sopravvivenza e di rinascita, trovando in James Franco un vibrante protagonista, capace di esprimere tanto l’esuberanza spensierata e sbruffona dello sportivo spericolato in cerca del brivido estremo, quanto la delirante e incredula disperazione di un ragazzo che all’improvviso si ritrova a dover affrontare non solo la prospettiva di una morte beffarda e prematura, ma anche una serie di rimorsi e rimpianti, per tutto ciò che non ha avuto il coraggio di affrontare o ha dato per scontato.

 

La regia frammentata e cinetica di Boyle riesce non solo a condensare 127 ore corredate da introduzione e flashbacks in poco meno di 90 minuti di film, ma anche a rendere avvincente una storia che si svolge essenzialmente in un unico posto, sfruttando i viaggi della mente del tenace e straziato protagonista per spaziare tra ricordi e desideri, con alcune trovate visive molto suggestive, sia grazie alla selvaggia ambientazione desertica, sia con l’espediente della prospettiva in presa diretta tramite la videocamera usata dallo stesso ragazzo. Il crudo presente e la fervida immaginazione cozzano più volte, fino alla presa di coscienza finale, ovvero al momento in cui Aron trova la forza per liberarsi, rinunciando ad una parte di sé che non è solo fisica (il braccio che alla fine si amputa) ma anche emotiva (la consapevolezza del suo essere solo e del bisogno di coltivare dei veri affetti). Non a caso, appena abbandona la prigione di roccia e si ritrova in mezzo ad altre persone, ci si butta quasi, come ad accettare questa nuova dimensione.

 

Un po’ troppo frenetici i pochi minuti finali, dedicati a mostrare il ritorno “in società” del protagonista, con conseguente giostra mediatica, ma anche col riavvicinamento alla famiglia, alla donna amata e alla sua altra passione, la montagna.

 

Nel complesso un film che coinvolge soprattutto grazie alla ottima recitazione di Franco e alla bella fotografia, non privo di metafore e riflessioni più profonde ma che, anche a causa di qualche eccesso virtuosistico, lascia un po’ perplessi in alcuni momenti, specialmente chi non è abituato allo stile cinematografico eccentrico e provocatorio di Boyle.

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