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Non lasciarmi

Regia di Mark Romanek vedi scheda film

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La recensione su Non lasciarmi

di pazuzu
4 stelle

Da quando nel 1952 i progressi della scienza medica hanno reso curabile ogni male l'aspettativa di vita è andata rapidamente allungandosi: nel 1967, anno di nascita (o meglio, di creazione) di Kathy Tommy e Ruth, supera già i 100 anni. Ma non per loro, che invece sono il mezzo utile a rendere tutto ciò possibile, sono il prezzo che l'umanità è disposta a pagare.
Non lasciarmi inizia dalla fine: siamo nel 1994, e una Kathy in vena di bilanci e riflessioni espone in un lungo flashback le tappe più significative di tre vite a termine. Il suo racconto parte dal 1978, dal college di Hailsham, nella campagna inglese, dove, in un apparente clima idilliaco, i ragazzi vengono educati alla cura per la salute e all'obbedienza. Tommy, negato per lo sport e per le arti, è timido insicuro e soggetto ad improvvisi scatti d'ira che lo rendono la vittima preferita dei giochi dei compagni; Kathy, beneducata passiva e riflessiva, prova per lui un affetto sincero e cerca costantemente di stargli vicino e di proteggerlo, mentre Ruth, calcolatrice ed egoista, si pone nei confronti del ragazzo con l'intraprendenza che all'amica manca. È qui, tramite le parole di un'insegnante in piena crisi di coscienza, che, appena adolescenti, apprendono quale sia la vera ragione della loro esistenza: sono dei cloni umani generati a tavolino al solo scopo di crescere sani e forti per poi donare i propri organi agli umani veri, coattivamente e ripetutamente fino all'inevitabile fine; seguono gli anni dei "cottages", un complesso di fattorie presso cui vengono trasferiti, in corrispondenza con la maggiore età, per proseguire l'educazione e prepararsi al loro destino, che prevede di norma il completamento del ciclo vitale dopo la terza o la quarta operazione.
Tratto dall'omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi si fonda su un'idea fantascientifica meramente concettuale e teoricamente forte insolita ed originale, che però si accartoccia presto su sé stessa, ridotta di fatto ad un guscio vuoto da uno sviluppo inconsistente. Perché la realtà alternativa ivi ipotizzata è tanto agghiacciante e spaventosa quanto piatta e poco credibile è la storia narrata, un dramma psicologico abortito ed immobile perché privo di un reale conflitto. I cloni protagonisti, infatti, sono esseri umani a tutti gli effetti, che si emozionano piangono e si arrabbiano, ma mancano di quel requisito fondamentale innato ed insopprimibile che risponde alla definizione di "istinto di sopravvivenza", arrivando così ad accettare fin troppo di buon grado il ruolo di morti viventi che gli è stato assegnato. Il contesto di depressione profonda e sofferenza generalizzata, privo della benché minima sfumatura, ed il diffuso senso di rassegnazione che ammanta ogni fotogramma e col quale si vorrebbe giustificare ogni forzatura, fanno da sfondo alla messinscena artefatta e velleitaria di un triangolo d'amore impossibile che non genera sussulti e procede in maniera sciatta verso un finale (in)evitabile e prevedibilmente e programmaticamente strappalacrime.
Il regista Mark Romanek, da taluni accostato sacrilegamente a Stanley Kubrick, mostra gusto per l'inquadratura e indovina qua e là qualche buona scena (quella del dialogo a casa di "Madame", o la successiva con l'urlo di Tommy al nulla), ma, pur puntando con decisione i riflettori sui tre personaggi principali, non riesce a farli emergere dall'atmosfera plumbea e ostile generata dalle tinte color seppia della malinconica fotografia di Adam Kimmel, inesorabilmente schiacciati dal peso della sceneggiatura spenta e priva di respiro di Alex Garland. Tra gli attori è in linea con il grigiore generale l'interpretazione di Keira Knightley, indecisa e scordata nel ruolo di Ruth; è buona invece la prova di Andrew Garfield, efficace nel rendere l'impaccio e l'emotività di Tommy, e ottima quella di Carey Mulligan (premiata come miglior attrice ai British Independent Film Awards), che fa della sua Kathy il personaggio meno bidimensionale del lotto, risultando, a conti fatti, l'unica ragione d'interesse di un'opera stanca e sbagliata.

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