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Immaturi

Regia di Paolo Genovese vedi scheda film

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La recensione su Immaturi

di LorCio
6 stelle

E se il ministero della Pubblica Istruzione vi mandasse una raccomandata dicendovi che dovete risostenere l’esame di maturità per un errore burocratico, voi, dopo aver metabolizzato il primo shock, cosa fareste? Paolo Genovese, ex metà del Mida stagionale Luca Miniero e già comparso a col babbonatalizio film di Aldo, Giovanni e Giacomo (ma lontani sono gli anni in cui Camillo Mastrocinque e Steno giravano sette, otto pellicole l’anno), formula un’ipotesi, malinconica e sincera, proponendo una specie di Grande freddo all’italiana (ma Verdone l’aveva già fatto, forse con qualche rancore di troppo, in quello che resta ancor’oggi il suo capolavoro, Compagni di scuola) meno disilluso ma molto più nostalgico. Immaturi è pure un buon film, ma soffre dei vizi più ricorrenti di certo cinema italiano recente: l’ambiente benestante poco credibile (lo psichiatra con moglie architetto, il conduttore radiofonico con casona al mare…), l’ormai stucchevole revival nostalgico dei trashissimi anni ottanta (questo perché gli autori quarantenni di oggi riversano tutte le loro ossessioni adolescenziali nei film che fanno; immagino come i registi della mia generazione infarciranno i propri film di Cristal Ball e Tamagotchi, di Cristina D’Avena e Spice Girls, di Pokèmon e Dragon Ball, e già mi immagino in brodo di giuggiole ad ubriacarmi di nostalgia), la sindrome adolescenziale che colpisce anche i quarantenni (emblematico quando, in altre parole, si cita la battuta più famosa di Notte prima degli esami, ossia quella in cui si afferma che è più importante ciò che si prova mentre si corre verso qualcosa che ciò che si prova alla fine della corsa), Roma come ombelico del mondo (ma Luca e Paolo con inattaccabile cadenza genovese che ci fanno nella capitale?).

 

Per il resto, il film è abbastanza gradevole, piacevole nel suo districarsi con discreto ritmo lungo l’intera storia, e perfino coinvolgente perché basta mettere un gruppo di vecchi compagni di classe e vai con l’immedesimazione. Nell’insieme della classe ognuno ha un proprio ruolo, nessuno è indispensabile e tutti sono necessari: c’è quello che deve ascoltare sempre tutti e non pensa ai propri problemi, c’è quello secchione che piuttosto che lasciare il nido si ammazzerebbe, c’è quella confusa e fottuta dalle circostanze con una vita disordinata ma vivace, c’è quello che non vuole crescere e si adagia sulle proprie menzogne, c’è quella ninfomane che non ha mai scoperto l’amore, c’è lo stronzo che resterà sempre uno stronzo e così via. Se ne frega di essere la metafora di un Paese di ignoranti, se ne frega pure di rappresentare una generazione, per quanto gli anni ottanta ricorrano con insistenza (un film del genere funzionerebbe con qualunque generazione, basta solo cambiare i riferimenti di cultura di massa): si interessa, invece, di sentimenti, parla di quella zona esistenziale in cui si decide cosa lasciare emergere dal proprio passato, con il pallino (altro totem dell’ultimo cinema nostrano) della ricerca di un qualcosa che chiamiamo felicità ma in realtà è solo equilibrio (che alla fine ha un solo nome, da Muccino a Lucini passando per Brizzi: famiglia). Intonato il cast, in cui non fallisce nessuno, compresi i due caratteri più interessanti, incarnati dalla sempre più energica Barbora Bobulova e da un ritrovato Ricky Memphis (ma forse Paolo meritava più spazio); e poi, come un raggio di sole, c’è quello splendore di donna di Giovanna Ralli (coadiuvata da un ottimo Maurizio Mattioli), che, nonostante il ruolo marginale, impartisce la solita, grande prova d’attrice.

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