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Il cigno nero

Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film

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La recensione su Il cigno nero

di logos
8 stelle

Una giovane ballerina, Nina (Natalie Portman) del New York City Ballet, sogna di raggiungere le vette del successo artistico nella danza, fagocitata dalla madre Veronica (Barbara Hershey), la quale ha dovuto rinunciare alla sua carriera artistica nella danza proprio a causa della nascita di Nina. Il rapporto tra madre e figlia risulta dunque molto ambiguo: protettiva e invasiva la madre, che cerca così di convertire l’odio nei confronti della figlia in un amore asfissiante che vincola l’esistenza di Nina in una gabbia dorata, cioè la comune passione nella danza; autolesionista e perfezionista Nina che, soddisfacendo il proprio senso di colpa di esistere introiettato dalla figura materna, diventa sempre più ossessiva verso la danza.

 

La danza diventa così lo sfondo che lega la madre e la figlia, un’arma a doppio taglio, dove l’amore e l’odio si confondono; perché se è vero che madre e figlia non possono non amarsi, è anche vero che la danza nella quale sono legate è il segno di una sconfitta da parte della madre e di una rivincita da parte della figlia, una rivincita che al tempo stesso avvilisce la figlia medesima, perché finisce per essere una rivincita contro la madre ma anche un assoggettamento alla madre stessa. La danza così diventa doppiezza, ambiguità, in cui il senso di colpa e la ribellione si stringono in una antinomia in cui ciascun termine rinforza l’altro nell’opposizione; il senso di colpa e la ribellione, questo doppio rovesciamento (il senso di colpa si rovescia in ribellione e la ribellione si rovescia in senso di colpa) finisce per acutizzarsi in Nina quando il direttore Leroy (Vincent Cassel) inaspettatamente le assegna il ruolo di protagonista in una ricostruzione tutta originale del "Lago dei cigni". Infatti Nina dovrà rappresentare sia il cigno bianco che il cigno nero; da una parte sarà la principessa Odette trasformata in cigno dall’incantesimo del mago Rothbard, e potrà liberarsi dall'incantesimo soltanto grazie all’eterno amore del principe Siegfried. Ma dovrà anche impersonare il cigno nero, la figlia Odile del terribile mago, in modo da ingannare il principe, affinché Odette non venga da lui sposata e, nella desolazione, sia costretta al suicidio.

 

Nina nelle prove incarna bene il candore del cigno bianco, ma non altrettanto il lato oscuro del cigno nero. Il fatto che Nina riesca bene nel cigno bianco è dettato dal senso di colpa suddetto, che la costringe a essere perfezionista nella tecnica, senza però quello spirito ribelle represso e rimosso che alberga dentro di lei, e che sarebbe necessario per eseguire la parte del cigno nero.

D’altra parte la rappresentazione stessa e le prove continue e rigorose imposte dal direttore, un Cassel davvero straordinario, costringono la povera Nina a una formazione introspettiva in cui mette a nudo se stessa, svelando la sua doppiezza di colpevolezza (ma anche contenimento di apparente grazia e purezza) e di ribellione (ma anche oscurità e sessualità debordante), di cigno bianco e cigno nero.   

 

Questa introspezione, del resto, non avviene in Nina in modo nitido, ma attraverso processi inaggirabili di rimozione, che la costringono a cadere in trame allucinatorie persecutorie, sia nei confronti della stessa madre ma anche della sua collega Lily (Mila Kunis), la quale le rimanda uno stile di vita lascivo, al punto da essere percepita da Nina come modello ma anche come antagonista.

 

Nina dovrà dunque fare i conti con sua madre, ma anche con questa sua amica, dove l’amore e l’odio diventano un vero e proprio concentrato allucinatorio in cui la stessa Lily, in un gioco di specchi, finisce per essere Nina, e tutto ciò perché Nina è in lotta con se stessa, lacerata com’è tra senso di colpa e ribellione; ed è soltanto il proprio senso di colpa inconscio che le impedisce di interpretare quel cigno nero che proietta fuori di sé, nella figura di Lilly, ma che in realtà è in lei stessa anche se non riesce a riconoscerlo se non nelle allucinazioni del suo corpo intravisto negli specchi come la minaccia di un Sosia (cfr. Dostoevskij).

 

Anzi, proprio per appropriarsi di questa parte oscura dovrà fare a pezzi la parte pura, la ribellione la impossesserà fino al suicidio e in questo modo, per un’eterogenesi dei fini, riuscirà a interpretare alla perfezione il cigno nero ma anche la morte finale del cigno bianco. Non solo: una ribellione del genere, in stretta lotta contro il senso di colpa, non fa altro che acutizzare il senso di colpa medesimo, fino al suo estremo atto di forza che è il suicidio di Nina, facendole credere di aver ucciso Lily, mentre in realtà uccide se stessa.

 

In questo gioco tutto psicoanalitico tra Super-io ed Es, l’Io di Nina va a pezzi, sacrificato a una danza che finalmente funziona senza più il soggetto vivente, completamente smaterializzato nell’opera da rappresentare. Come in un teorema l’opera da rappresentare, il Lago dei cigni diventa funzionale alla schizofrenia di Nina; e così nella sua mente, Lily diventa il cigno nero e il direttore, a sua volta, diventa in modo alternato il principe Siegfried o il terribile Rothbard che nella sua lussuria si impossessa sessualmente di Lily, che nel delirio di Nina, diventa il cigno nero, la figlia dello stesso mago, i quali complottano contro Nina in un rapporto incestuoso, quel rapporto che Nina vive su di sé, nel suo mondo allucinato, sulla propria pelle, in un corpo autolesionista che non sopporta e accetta le intrusioni orrifiche della propria madre: e anche qui il rapporto tra madre e figlia non è esente, a bene vedere, da impulsi incestuosi dovuti a un’identificazione al tempo stesso repulsiva e simbiotica. 

 

Inutile rimarcare i rimandi a Cronenberg, un altro regista a cui è cara la tematica del doppio, sviscerata nella dimensione delle mutazioni organiche, dei deliri, delle allucinazioni, ma che non sono mai gratuite, perchè sempre radicate nel sondare l'abissalità dell'esistenza, infagottata in una cultura che dice troppo e troppo poco;  Aronofsky ripercorre i temi dei film precedenti, e con grande abilità riesce a intersecare i generi più disparati, dal noir al gotico, dal thriller psicologico e esitenziale all’horror, passando attraverso momenti di erotismo per tratteggiare i labirinti schizoparanoidi di Nina.

 

E’ anche un film, se vogliamo, sulla follia, che ce la fa veder crescere fino all’inverosimile, in un’esistenza minacciata dalla propria doppiezza. Non c’è alcuna scena al di sopra delle righe, anche i momenti in apparenza più eccedenti devono essere concessi, perché sotto la ripresa di Aronofsky tutto è ben incastonato in una geometria che pedina il disordine in tutti i suoi risvolti, al punto che lo si può vedere e rivedere, il film, per notare come tutti i particolare, anche i più minuziosi, siano segnali, riflessi del mondo di Nina, che imprime negli altri personaggi tutta la sua esistenza destinata al naufragio. C'è poco da dire sugli attori, bravi tutti. L'unico limite di questa pellicola è che non si può vedere una volta soltanto per poterla apprezzare davvero. La prima volta che la vidi non ci avevo capito quasi niente. E qui ritorna il discorso dell'eccessivo. A primo impatto c'è, non si può dire di no, questa è la mia impressione. Ma poi se vai a rivedere il tutto, con pazienza, hai a che fare con un vero e proprio Teorema del delirio in salsa geometrica.

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