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Machete

Regia di Ethan Maniquis, Robert Rodriguez vedi scheda film

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La recensione su Machete

di spopola
8 stelle

Un’opera straordinaria nata come fake trailer (era lo scalcinato “prossimamente” programmato all’inizio di Planet Terror), solo in seguito e con l’aggiunta di un ulteriore, cospicuo materiale filmato per l’occasione, e di numerose scene rivisitate per dare la necessaria continuità alla pellicola, è diventato questo folle divertente film.

Non ho bisogno di essere una persona vera sono già un mito.

 

Un film straordinario da studiare con particolare attenzione, per più di una ragione, a partire dall’originale meccanismo produttivo che l’ha generato: questo è Machete, opera di una fisicità prorompente,  potente  ed assoluta.

Nato come fake trailer per l’operazione Grindhouse (era lo scalcinato “prossimamente” programmato all’inizio di Planet Terror), solo in seguito (esattamente come era stato preannunciato e promesso) è diventato un film vero e proprio, con l’aggiunta di un ulteriore, cospicuo materiale filmato per l’occasione, e di numerose scene ri-girate per riuscire meglio a connettersi con la continuità della pellicola.

Robert Rodriguez è stato dunque davvero geniale nel capovolgere così la consuetudine industriale che vede il trailer quale elemento derivato rispetto all’opera che intende promuovere, e non  certo viceversa, come invece è accaduto in questa circostanza.

Il trailer che di solito contiene una campionatura di elementi particolarmente accattivanti fra quelli che compongono la pellicola di riferimento, è diventato invece in questo caso, un vero e proprio story concept, il punto di partenza insomma sul quale definire il film (e che film!): esattamente il Machete che è approdato poi in sala, opera intensa e singolare le cui tracce fondanti il suo “creativo” trailer già conteneva in nuce.

Il rischioso, inusuale procedimento utilizzato, evidenzia ulteriormente allora non solo l’inventiva intelligenza un po’ folle del regista, ma conferma anche che Rodriguez  è uno degli autori contemporanei che meglio riflette sull’importanza (e sul conseguente uso pratico che ne deve essere fatto) dello storyboard, indispensabile strumento di riferimento tecnico per la realizzazione di ogni opera cinematografica che si rispetti.

Visto che sulla validità del film e sulla sua importanza Stefano Falotico (fra i tanti che ne hanno parlato in termini positivi) con la sua appassionata recensione ha già scritto tutto ciò che di apprezzabile poteva essere detto al riguardo, preferisco concentrarmi più concretamente  proprio su questi fondamentali aspetti tecnici e procedurali, che a mio avviso aiutano a definire ancora meglio la grandezza di un autore, anziché sperticarmi a mia volta in lodi  e incensamenti che sarebbero solo una plaudente e sterile ripetizione che nulla aggiungerebbe, se non qualche aggettivo, alla comprensione di un opera importante come questa e dell’illuminato artefice che ci sta dietro.

Lo storyboard, allora, e non è certo una novità che sia fondamentale: se in El Mariachi  l’uso era stato forse solo marginale non fu sicuramente per disattenzione quindi, ma semmai per una scelta pratica di convenienza (la mancanza di una troupe a cui illustrare le sue decisioni e le sue scelte)  visto che per il successivo Desperado fu proprio lui a disegnarne uno di suo pungo e che nella successiva evoluzione della sua carriera, Rodriguez arriverà a concepire Sin City quale versione filmata  della preesistente Graphic Novel  milleriana  (e quindi partendo da uno storyboard  già perfettamente organizzato e a disposizione). Più radicale ancora quello che ha fatto con Machete, quando ha arditamente considerato quale parziale “procedura illustrativa” della storia semplicemente un prodotto audiovisivo precedente e casuale, organizzato alla meglio per tutt’altro scopo, ma attraverso il quale l’opera finale riuscirà poi a realizzarsi con assoluta precisione inserendo magistralmente ogni tassello mancante inventato ad hoc, e “ricostruito” con perfetta aderenza sulla base di ciò che quel “prossimamente” suggeriva.

Ma non è solo questa la peculiarità specifica del film, poiché Machete evidenzia anche un interessante e suggestivo rapporto di connessioni che ha a che fare con una specie di “serialità interna” (non saprei come definire meglio la cosa), visto che il film può essere leggibile persino come uno spin-off  della saga Spy Kids, se è vero come è vero che Danny Trejo, attore feticcio del regista, era già apparso in tali sue precedenti produzioni e in panni similari a quelli che si troverà poi a rivestire proprio in Machete.

Per Mauro Antonini (si ha sempre bisogno di conferme eccellenti se si sposano tesi un po’ ardite come questa) il Trejo di Machete “è portatore di un’iconografia transitoria e dadaista” che si espande e prende forma ben oltre il personaggio qui rappresentato, poiché transita e passa anche da un cinema totalmente esterno persino al Rodriguez stesso (in XXX di Rob Cohen è infatti proprio l’attore Danny Trejo, ovviamente in altra veste, che tortura il protagonista Xander Cage, ma guarda caso, lo fa  proprio con un machete).

Sarà comunque di nuovo con Rodriguez che assumerà una forma più specifica e diretta quella figura (in Spy Kids, appunto, dove viene “forgiato” col  nome di Machete Cortez, che manterrà senza alcun cambiamento anche nella pellicola che lo vede attualmente protagonista assoluto della storia). Un caso singolare che non credo abbia altri precedenti analoghi e che lancia segnali importanti e lascia una traccia precisa e una scia. Machete allora (è ancora Antonini a dirlo) è dunque per il regista un personaggio seminale “capace di unificare la continuità delle due grandi anime del suo cinema”, una specie di trait d’union così particolare, da trasformarsi in una vera e propria “specialissima” icona che, arrivando finalmente ad incarnare il ruolo del protagonista, “svolge il suo plot finalizzato a dare un entroterra alla sua figura” e gli attribuisce così le necessarie origini da “action hero”, che ne fanno un carattere con una ben precisa storia alle sue spalle (cosa che invece mancava totalmente in tutte le sue precedenti apparizioni di “avvicinamento” e che si completerà definitivamente proprio nel finale del film, quando rifiuta di accettare un documento di identità che gli cambierebbe inesorabilmente i connotati: Non ho bisogno di essere una persona vera. Sono già un mito, appunto).

Tutto il cinema di Rodriguez  sembra dunque voler utilizzare un rapporto specifico e diretto  fra mito e dogmatismo “per re-instaurare quel senso di trasgressione che i film “grindhouse” degli anni ’70 sviluppavano attraverso la mostrazione dell’eccesso. Conscio che sesso e violenza oggi non sono affatto materiali shock, l’exploitation di Machete è diretta allora verso una provocazione soprattutto formale, poichè da quando il cinema d’azione si è visto gradualmente detronizzato dal cinema dei supereroi, tutto ciò che ruota intorno alla corporeità e all’eccesso (fulcri di entrambi) è stato sempre più “dimostrato” e portato alle estreme conseguenze visive (che è poi quello che anche il regista fa magistralmente pure in questa occasione), tanto che – conclude ancora Antonini - “il mito di Rodriguez, rivolto proprio all’action “dogmatica” – laddove Machete può installare un mitragliatore su una comune moto e far fuoco senza premere alcun grilletto – s’instaura proprio nella pellicola in cui l’eroe spiega sé stesso, in un sincretismo consapevole e militante che odora di ribellione e di rivoluzione come l’anima popolare e feroce del film stesso.”

La sola estetica che importa al regista, quella a cui si riferisce sempre, è dunque quella delle sporche pellicole delle serie “inferiori” di una volta (dal B alla Z, scegliete pure a vostro piacimento) anche se aggiornata ai tempi, e pure questa pellicola va presa per quello che effettivamente è, e letta in tale direzione e prospettiva: un divertimento eccessivo quasi come uno “sballo”, scorretto e cialtrone, roboante, avvincente e fracassone, tutt’altro che patinato insomma, ma “ardito” come pochi altri, dove  anche la trama e i personaggi sono usuratissimi ricicli (ed è questo il suo bello) rivitalizzati però da un ritmo forsennato e da una superlativa carica di ironia che ne fanno un grande film (o meglio un’esperienza sensoriale assoluta e totalizzante). Il senso di Machete dunque alla fine è davvero tutto in quel Danny Treyo, “che penzola da un palazzo attaccato alle budella di un cattivo sventrato. Il resto sono solo chiacchiere.” (Mauro Gervasini).

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