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Poetry

Regia di Chang-dong Lee vedi scheda film

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La recensione su Poetry

di PompiereFI
10 stelle

Fermarsi ad ascoltare il suono del vento mentre accarezza le fronde degli alberi. Scoprire che una mela non è solo banale colore riflettente la luce, ma anche sostanza, gusto, odore. Proporsi al prossimo senza esitare, eliminando ogni inibizione e paura di scocciare, riscoprendo quel molesto approccio infantile un po’ birichino e intraprendente che fa tanto arrabbiare i grandi. E poi far trascorrere il tempo. Tanto tempo. Per lasciar sedimentare quell’insieme di sensazioni che, prese singolarmente, danno le vertigini e ci lasciano confusi ma che, lasciate distendersi e spiegarsi, possono dare origine alla poesia; insieme di frasi, parole e metrica perfetti che sublimano l’interpretazione di una preziosa realtà.

 

“Poetry” chiede questo alla sua protagonista e allo spettatore. Perciò mettiamo da parte orologi, telefonini e touch screen, almeno per un paio d’ore. Accantoniamo i piaceri tattili e restiamo in ascolto della voce saggia e pertinente di Mija (la grandissima Yun Jeong-hie dal raro aspetto volubile), signora coreana 66-enne che soffre di formicolii al braccio e vuoti di memoria.

Toccante figura femminile, elegante nei modi e tenace come solo certi anziani sanno esserlo, Mija è scossa da un pianto di madre. Quella donna che fuori dall’ospedale frigna disperata per la perdita della giovane figlia che si è tolta improvvisamente la vita, rimane impressa nella memoria di Mija; riecheggia costante mentre assiste un signore emiplegico, mentre tenta di scambiare quattro chiacchere con i vicini, e quando prepara da mangiare per il catatonico nipote che abita in casa con lei, e lì parcheggiato da una madre troppo lontana e occupata.

 

Quello di Lee Chang-dong è un cinema che non indietreggia di fronte a nulla pur di ricercare l’obiettività delle azioni più vili e inammissibili. La realtà è penosa e sporca: compra il silenzio con i soldi dimenticando qualsiasi rimorso, e Mija ne assimila tutta l’angoscia e lo smarrimento.

 

La forza bruciante della scrittura è ammirevole, tanto che la sceneggiatura è stata giustamente premiata con la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2010. Al centro del racconto ci sono una chiusura e un isolamento che nascono dalla mancanza di rispetto, da un’educazione mai ricevuta (e che mai sarà concessa?). Riconoscere l’umanità intera nell’incosciente nipote rimbambito dalla televisione non è un gioco di società. La scelta prescrive un impegno etico ben preciso.

Notate come in Jongwook (Lee Da-wit), questo il nome del giovane liceale, sia presente tutta l’indolenza e la tracotanza di una generazione che non ha dimenticato solo la poesia, ma lava via con l’indifferenza qualsiasi senso di colpa. Una stirpe che non sa rinunciare al richiamo di un sms, che lascia a metà una partita di volàno, e si chiude in camera stordendosi con la musica a tutto volume.

 

Il processo narrativo vive e palpita di questa svolta morale: ogni dialogo viene centellinato, ogni sequenza perfettamente dosata nel suo bilanciamento tra parola e immagine. Un vero godimento. Una sorpresa dopo l’altra. In un’imperiosa occasione di felicità di realizzazione cinematografica talmente riservata che il pubblico potrebbe non percepire subito e in ogni caso sottostarvi con piacevolezza interiore.

 

È un mondo malvagio: i fiori rossi più belli sono artificiali, i frutti più buoni caduti a terra, e la morte è un lungo fiume tranquillo.

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