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The Invisible Eye

Regia di Diego Lerman vedi scheda film

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La recensione su The Invisible Eye

di OGM
6 stelle

C’è molta grazia nella regia di Diego Lerman. Ma è una grazia acerba, eccessivamente timorosa di accostarsi ad una realtà considerata troppo fragile per sopportare il peso di un’interpretazione chiarificatrice. La gracile femminilità della protagonista diffonde nell’ambiente circostante un sentore di precarietà ed incertezza: una fragranza rarefatta che emana dai fremiti dei sentimenti repressi. Maria Teresa Cornejo, detta Marita, nel 1982 ha ventitré anni e lavora come sorvegliante in uno storico collegio di Buenos Aires. A lei è affidato il compito di vigilare sempre, e in ogni luogo, sulla condotta degli allievi, che devono essere perfetti in tutto, a cominciare dal modo di portare i capelli o di indossare la divisa. Il suo ruolo è quello dello sguardo invisibile, che osserva senza essere notato,  intrufolandosi segretamente ovunque, soprattutto negli angoli più nascosti, dove i ragazzi sono convinti di potersi abbandonare indisturbati alle loro piccole passioni proibite, dal bacio adolescenziale ai giornaletti di satira politica. E così, senza che nessuno se ne accorga, Marita riesce ad inserire di soppiatto, nella pratica della sua missione istituzionale, un obiettivo strettamente personale: spiare uno studente di cui si è invaghita. Tuttavia, anziché limitarsi a controllare a distanza i suoi movimenti, entra senza ritegno nella sua intimità: si avvicina a lui per odorarlo, lo segue nel bagno, fruga nella sua borsa depositata nel guardaroba. A onor del vero, riesce a compiere queste operazioni mantenendo una qualche forma di discrezione, dato che l’oggetto del suo desiderio sembra non sospettare alcunché. Il film si concentra sulla silenziosa cronaca di questo stalking surreale, su cui si addensa tutta la sua voglia di coltivare l’attesa e la frustrazione come le sostanze di una soffusa poesia esistenziale. Tutto il resto, nella vita di Marita, appare come un superfluo corollario di quella tensione monomaniacale, che finisce per spadroneggiare in maniera innaturalmente invasiva su una trama esile ed incolore come un filo di ragnatela. Il mondo, con i suoi problemi  - nella capitale sono in corso violente manifestazioni  contro la dittatura – rimane, fino all’ultimo, fuori dalla porta, escluso da quell’artificiosa nicchia di solitaria eccitazione in cui Marita trascorre le sue giornate. Un vizio privato si stacca completamente dal contesto, come se non esistesse la storia dell’umanità, né le preoccupazioni quotidiane. Le poche, superficiali confidenze che la  giovane donna scambia con la nonna non bastano a ricucire quello strappo narrativo che confina il suo personaggio in una impenetrabile zona d’ombra. Marita è un mostro di morbosità che rimane trasparente ed immacolato. È un paradosso d’innocenza che si nutre di una peccaminosità virtuale, della quale sembra non essere mai sazia. È un discorso a sé, che non parla, ma è fin troppo esplicito, che sa quello che vuole, però, in fondo, non fa nulla per averlo. Il suo atteggiamento si risolve in un perenne stato di agguato, passivo e inconcludente, nel quale la sua anima, nel contempo, soffre e si bea. La mirada invisible è un’opera delicatissima, ma che vive di sole sfumature, mollemente adagiate sui sottintesi e sulle contraddizioni di una presenza talmente flebile e sospesa tra gli estremi, da mettere fortemente in dubbio la sua concreta possibilità di esistere.   

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