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Un gelido inverno - Winter's Bone

Regia di Debra Granik vedi scheda film

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La recensione su Un gelido inverno - Winter's Bone

di spopola
8 stelle

Tratto dal romanzo di Daniel Woodrell editato in Italia da Fanucci (un libro da non perdere assolutamente) e sceneggiato dalla stessa regista con la collaborazione di Anne Rosellini, Winter’s Bone è a sua volta un’opera davvero sorprendente e soprattutto abbastanza inusuale nel panorama odierno del cinema statunitense.

Tratto dal romanzo di Daniel Woodrell  editato in Italia da Fanucci (un libro da non perdere assolutamente) e sceneggiato dalla stessa regista con la collaborazione di Anne Rosellini, Winter’s Bone è a sua volta un’opera davvero sorprendente e soprattutto abbastanza inusuale nel panorama odierno del cinema statunitense.

Quella che ci viene narrata, è infatti una storia molto dura, sofferta e conflittuale, che evoca e fa riemergere con i suoi risvolti  un po’ onirici e “funesti”, fobie e paure molto elementari, quasi “primitive”, oserei dire, come quelle della fame, del terrore di perdere la certezza di un “rifugio sicuro” (la casa nella fattispecie) e degli affetti, dell’isolamento, dell’emarginazione, e del dover fronteggiare l’ostilità del “branco”, con le quali la protagonista è costretta a fare i conti e a confrontarsi quando diventano per lei realistiche  e concrete “minacce” che rischiano di minare il suo futuro. Ma il vero valore aggiunto a mio avviso, l’elemento di assoluta rilevanza che rende ancor più interessante la visione, è la natura matrigna, fosca e indifferente che fa da sfondo a tutta la vicenda.

Il film rimane fortemente ancorato alla sua radice letteraria (e non poteva certo essere altrimenti, considerata la densità della scrittura), ma  nel passare dalle pagine allo schermo, qualcosa si è modificato, e non solo per alcune sostanziali “variazioni” anche nella composizione e nella definizione dei personaggi (il nucleo “familiare”  che gira intorno a Ree, fulcro centrale del racconto,  per esempio) ma proprio per una visione più generale delle cose,  orientata maggiormente al femminile (l’attento “sguardo” di una donna dietro la macchina da presa, si avverte ed è importante) che diventa in fondo  anche più ”simbolica” e meno “nera” della fonte (non certo meno amara, comunque), cosa questa che contribuisce però a renderla abbastanza autonoma, indipendente e personale.

La protagonista è Ree, una energica e combattiva ragazza di appena diciassette anni costretta dagli eventi della vita, a maturare più in fretta di quanto non indichi il suo aspetto e la sua effettiva identità anagrafica, ed è proprio su di lei che si abbatte la diffidenza e la violenza distruttiva di una comunità chiusa, ostile ed abbrutita nella quale è cresciuta e dalla quale ha già da tempo imparato a difendersi e a diffidare. Vive insieme alla madre malata di depressione e ai fratelli ancora minorenni, in una fattoria sperduta fra i boschi e su per le montagne del profondo, inospitale e gelido Missouri (l’altra faccia dell’America opulenta e ricca), ed è proprio lei che tira avanti la baracca con pochi aiuti e ancor meno comprensione, se non quella offerta da una famiglia di vicini.

La ragazza, circondata da qualche labile affetto e molta indifferenza, rappresenta dunque il cuore e l’anima di ciò che resta di una famiglia che riesce a fatica a sopravvivere per povertà e disinteresse generale.  Nonostante tutto, dimostra grande dignità e carattere, e persino una “grinta” fuori dal comune. Suo padre (la cui figura è totalmente assente), già  recluso per un problema di produzione e spaccio di droga, è uscito di galera da poco, ma prima di sparire facendo totalmente perdere le sue tracce, ha ipotecato la casa e le terre della fattoria in cambio della cauzione che gli ha consentito di  riguadagnare una momentanea libertà.

A casa però non è tornato, e sembra essere svanito nel nulla. E’ proprio questa “assenza” il gravissimo problema da risolvere: se lui non si presenterà all’udienza infatti,  Ree e i suoi familiari  perderanno tutto ciò che hanno, perché ogni cosa passera di proprietà delle Banche.

La missione di Ree è quindi proprio quella di individuare e recuperare l’uomo prima che la burocrazia intervenga a sequestrare tutto, in modo da poter salvare così non solo la fattoria, ma anche i suoi affetti.

 

Per la ragazza inizia così un lungo e difficile percorso alla ricerca di quel genitore il cui ricordo è appeso ormai solo a scolorite e vecchie fotografie, pedinata  e osteggiata dall’ostilità criminale degli abitanti del villaggio che dalla precedente attività  finalizzata a produrre alcool di frodo, si sono riciclati in quella della produzione ugualmente illegale ma più redditizia della cocaina e mal digeriscono pericolose intrusioni atte a turbare il loro equilibrio e i loro guadagni.

Nel crescendo degli eventi (e un po’ proprio come succede nelle favole), la ragazza è isolata, minacciata e aggredita e a un certo punto quando immagina di non avere ormai più alcuna chance di uscire viva da quel ginepraio dove si è cacciata, si vede costretta a insegnare persino a chi è più piccolo di lei e quindi ancora in età infantile, come si spara con un fucile, come ci si difende o si scuoia uno scoiattolo, per garantire almeno un minimo di futuro agli altri (una delle sequenze più toccanti dell’intera pellicola), perché nel mondo di Ree – l’unico che lei riesce a concepire - la sopravvivenza è labile, sospesa com’è in uno stato di equilibrio precario e minacciata da un lato da un annullamento progressivo che rischia di trasformarsi in arrendevole catatonia, e dall’altro da un individualismo spietato contro il quale sembra che sia possibile contrapporsi e cercare di resistere solo invischiandosi nel peggiore dei pantani.

L’autodeterminazione assoluta di un percorso caparbio come quello che spinge spesso la ragazza ad osare, è terribile e intriso di sofferenza estrema, dovuto a un isolamento totale che porta con sé il “gelo nelle ossa”, più crudele e profondo di quello meteorologico della prolungata stagione invernale in cui è calata la vicenda (come giustamente suggerisce e chiarisce  anche in senso simbolico il titolo originale: Winter’s Bone , “freddo nelle ossa”, appunto, e al quale, ancora in questo caso, l’approssimativa traduzione italiana non rende assolutamente giustizia, come osserva anche con assoluta pertinenza Marco Benoit Carboni, quando nel suo giudizio critico indica che il film pone principalmente il problema di quale sia il tozzo, l’osso, l’obolo dell’inverno).

La regista Debra Granik (bravissima, e non è un caso che si sia formata proprio nel campo della fotografia) con uno stile asciutto e vigoroso che raggiunge spesso la perfezione “armonica” di  una composizione tragica che non lascia indifferenti, riesce a fondere molto bene tutti i disparati elementi, coagulandoli  in una disperata partitura di anime perdute sprofondate in una specie di limbo roccioso che ben preannuncia “l’inferno” di quelle esistenze ai margini, e una parte del merito di un così eccelso risultato, va proprio alla sua impaginazione “visiva”, poiché il film è fotografato magistralmente da Michael McDonough, con immagini e riprese spesso “disturbanti” che trasformano il tutto in una messa in scena fortemente ansiogena e serrata che si articola in un disgelarsi progressivo e perturbante non solo degli eventi e delle figure, ma anche delle  “forme”, così da farla diventare a suo modo quella di un thriller genuinamente angosciante, in cui lo spazio stesso, l’elemento che dovrebbe essere solo la cornice, diventa così “orrorifico” da fare più paura di ogni altra cosa per il disorientamento e lo sconcerto che ci fa percepire:  il freddo che diventa immagine, insomma, è non è cosa da poco essere riusciti a fornirci un quadro dell’insieme così devastante e “sporco”, oltre che toccante.

Ritornando alla storia, si può dire che la ricerca spasmodica dell’ingrato genitore da parte di Ree la costringe a confrontarsi con confini ben più ampi (anche delle sue certezze) e la spinge molto lontano, oltre l’orizzonte “conosciuto”, verso l’altopiano di Orzak, che disegna la più ampia regione montuosa tra gli Appalachi e le Montagne Rocciose.

La Granik racconta questi luoghi con straordinaria efficacia (e la fotografia fa il resto) mostrandoci percorsi sempre più tortuosi, e tenendo la ragazza costantemente al centro di un paesaggio malvagio abitato da malviventi e persecutori, omertosi suonatori di musica country, spesso rassegnati o rattrappiti  dalla noia, fra i quali Ree deve cercare di trovare qualcuno che abbia visto il padre (o che sia disposto a dichiararlo), che possa insomma darle qualche indicazione (sa che la sua non è un’utopia campata in aria, e lotta spasmodicamente  e ad ogni costo per arrivare a “sapere”).  Ma il suo viaggio sarà un continuo “scontro” di intenti: chi l’ostacola, chi vorrebbe aiutarla ma non può, chi la sostiene a costo della vita….  ed è proprio così, anche nelle contraddizioni, che lentamente emergono e si disvelano le multiformi facce che popolano quel territorio infame,  brumoso, senza pace, ostile e rancoroso.

E se all’inizio pare che tutto si articoli in uno scontro di contrapposizione fra l’universo femminile e quello maschile, più coriaceo e crudele, proprio perché i “cattivi” che rappresentano il lato distruttivo della natura sembrano essere soprattutto gli uomini della comunità,  che esibiscono più apertamente la loro ostilità,  “mostrano” tatuaggi e cicatrici, fregiano le loro dimore di inquietanti teste di animali impagliati, sono ubriaconi violenti ed irascibili, subordinano e condizionano le loro donne, il film  rovescia  ben presto le sue carte in tavola e presenta inaspettatamente una situazione più complessa in cui anche il femminile si manifesta degno di analoga violenza e di  altrettanta capacità di sopraffazione, poiché alla fine - sembra voler sottolineare la regista -  il problema riguarda principalmente  il lato oscuro di ogni esistenza, e in questo non ci sono poi davvero molte differenze: gli uomini sono semplicemente più autodistruttivi o persino  più fragili alla fine, e le donne più subdole e determinate, non dissimili in fondo – nemmeno le “cattive” - da Ree nel difendere a loro volta a tutti i costi una comunità  terrorizzata da una possibile soffiata esterna, che potrebbe mettere fine allo spaccio di anfetamine o condurre a una retata. Allora anche il “femminismo” del film, se esiste davvero, o se proprio vogliamo considerarlo tale, finisce per trasformarsi ed affondare in un conflitto più profondo e generalizzato, quello fra la vita e la morte, e il senso più “certo” del messaggio si trasforma così nella difficoltà e nel dramma di chi, al di là di ogni altra cosa o convenienza, lotta proprio per riuscire a lasciarsi alle spalle chi non ha saputo (o potuto) evitare di soccombere, e a metabolizzare questa perdita (non solo la “materiale” presenza ma anche il ricordo).

Il film, come si può notare, gioca su diversi registri, anche se nell’evoluzione della storia e mano a mano che procede in avanti,  tende ad assumere sempre più le forme e i contorni di una favola nera, di un thriller, di un dramma infinito e lacerante, ma comunque a suo modo a “lieto fine”: ben presto dopo infinite porte sbattute in faccia e continui no, Ree scopre infatti di avere un alleato fidato e fedele in  Teardrop, suo zio, fratello di suo padre, e sarà proprio con lui, inizialmente ostile come e più degli altri, che formerà quel sodalizio padre/figlia che le è sempre mancato e che la aiuterà a districare e risolvere questo intricato puzzle anche esistenziale.

Potrei fermarmi qui perché in pratica ho già detto tutto, ma voglio sottolineare invece ancora l’”intelligente” rappresentazione di questa comunità coinvolta o connivente con la produzione di droga che ci viene offerta. Anche se la regista si limita ad “osservare” senza esprimere un giudizio o una condanna certa, e sembra del tutto disinteressata dal voler trasformare sia pur marginalmente il suo film in una denuncia “sociale” del problema, miseria ed emarginazione compresa, l’ancoraggio a una terribile realtà spesso negata (almeno ufficialmente) è evidente. Il suo lavoro, senza mai essere troppo didascalico, appare molto  pragmatico,  principalmente interessato all’aspetto “filosofico” delle cose,   opera sul simbolico, sull’indeterminato, ma non è mai del tutto “astratto”. Chi ha parlato di provincia profonda e degradata, ha ugualmente visto giusto, dunque, così come chi ha accennato a un’America isolata dal mondo, immiserita e tribale, di un microcosmo  fortemente realistico, ma “atemporale”, quasi  sospeso, perchè in questa stilizzata sacca di degrado, sono solo le auto e i furgoni  che parlano chiaramente dei nostri tempi: per il resto, potremmo benissimo essere nel la seconda metà dell’ottocento, nel pieno della depressione del ’29 o nel 1978, senza differenza alcuna, e  per questo, come ha scritto Mauro Gervasini proprio su FilmTv:  ancora più lucido è il rovescio della medaglia: la certezza che una miseria sociale ottocentesca possa essere la stessa dell’America di Obama, con i reclutatori dell’esercito nelle scuole, oggi per mandare i ragazzi in Afghanistan, l’altro ieri per combattere contro gli odiati yankee. In questo scenario, l’odissea di una donna poco più che bambina assume connotati mitici. Raggiunge una sorta di Ade (l’acquitrino gelido dove riposano gli amabili resti...) mentre intorno a lei si agitano i fantasmi né domi né pacificati di un mondo selvaggio e western, a un passo dalle rappresentazioni horror di  Rob Zombie. Come la coetanea Mattie di Il Grinta, ma con un senso del tragico che alla ragazzina dei fratelli Coen manca del tutto.

Per concludere quindi, un film sofisticato, ragionato, che ha la forza stessa della sua protagonista,  una straordinaria, pertinentissima  “potente” Jennifer Lawrence,  che ha avuto il merito di tratteggiare a tutto tondo, più che “un carattere”, un personaggio concreto, una figura “vera” e credibile, coraggiosa e determinata, ma al tempo stesso fragile e indifesa.

Un’ultima osservazione sul brutto doppiaggio italiano, in questo caso non azzeccato né pertinente,  perché azzera completamente la specificità dei dialoghi originali ben più  rozzi, quasi “biascicati” e avviluppati come in un groviglio inestricabile e selvaggio: il conformizzarli come è stato fatto, rende tutto certamente più “lindo” e comprensibile ma anche più distante e impersonale e soprattutto meno spontaneo e “naturale”, e questo non aiuta certo a favorire una partecipazione attiva dello spettatore.

 

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