Espandi menu
cerca
Un gelido inverno - Winter's Bone

Regia di Debra Granik vedi scheda film

Recensioni

L'autore

Spaggy

Spaggy

Iscritto dal 10 ottobre 2009 Vai al suo profilo
  • Seguaci 178
  • Post 623
  • Recensioni 235
  • Playlist 19
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Un gelido inverno - Winter's Bone

di Spaggy
10 stelle

Struggente ballata folk rock basata sulla protezione della famiglia da parte di un’adolescente americana. La diciassettenne Ree Dolly vive in una catapecchia sperduta tra le campagne del Missouri tra compiti domestici e obblighi familiari: il padre è assente fisicamente per aver abbandonato la famiglia e per via di guai giudiziari legati alla sua attività di chimico delle anfetamine, la madre è assente mentalmente perché imbottita da psicofarmaci che la riducono priva di pensieri ed emozioni e la giovane si sostituisce a loro nel crescere i due fratelli più piccoli, il dodicenne Sonny e la piccola Ashley. La situazione non è delle più rosee: si vive di stenti, tra bestie cedute ai vicini e legna da tagliare, tra avanzi di cibo e azioni caritatevoli, tra scoiattoli sviscerati come cena e un gelido inverno che incombe. La notizia dell’ennesimo processo al padre, libero su cauzione, porta ancora più disperazione nella vita della giovane: se l’uomo non si dovesse presentare, un’ipoteca che grava sulla casa e sul terreno circostante verrebbe riscattata e quel che resta della famiglia Dolly costretto ad andar via.


Alla ragazza non resta che intraprendere una lunga ricerca nel tentativo di ritrovare l’uomo, viaggio che si rivelerà più arduo e duro del previsto per via dell’omertà e della violenza che incontra durante il suo cammino, tra campagne di vacche e arbusti secchi che nascondono errori e orrori, tra omertà di finti amici e “nonni” criminali, tra “gocce di lacrime” e crank abusato, tra verità inconfessabili e “bravi” locali, tra paludi ristagnanti e mani che plasmano il destino.


Vincitore del Sundance Festival e del Torino Film Festival, il film della regista Debra Granik, basato sul romanzo omonimo di Daniel Woodrell, offre uno spaccato inconsueto dell’America, lontana dai topoi cinematografici. Siamo nel sud del Missouri, nell’altipiano d’Orzak, in quella che un tempo era una terra di confine, il “cancello del West”, passaggio obbligato per chi dall’Est inseguiva il sogno della lontana conquista. E di quel sogno oggi nulla sembra essere rimasto: come in una landa desertica, la vita di campagna sottostà ad un desolante silenzio della Natura che avvolge uomini e donne e li rende immobili nel tempo, con rigide gerarchie impossibili da superare soprattutto per una ragazzina di 17 anni che non persegue gli stili di vita dei suoi coetanei. Ree è costretta dalla vita a rinunciare alle sue aspirazioni, non va a scuola né tantomeno segue il corso militare da cui è affascinata nelle prime immagini del film. Lei è cresciuta prima del tempo, si è ritrovata ad essere mamma perché un figlio è tale anche se non ti appartiene biologicamente: Sonny e Ashley sono più che fratelli per lei, si occupa della loro educazione sia scolastica sia di sopravvivenza. Insegna loro a far lo spelling delle parole ma anche a tirare con il fucile, da loro lezioni di matematica ma anche di cucina: è lei la chioccia di casa e oltre ai due pulcini si ritrova ad accudire anche una madre che non può esserle di nessun aiuto né materiale né spirituale. Struggente è il momento in cui chiederà alla donna un consiglio sul da farsi e costei continua a rimanere in silenzio con lo sguardo perso nell’aria, come se vivesse in una dimensione parallela fatta solo di ricordi legati al passato (e lo si evince nel momento in cui sfogliando l’album di foto del passato accenna ad un timido sorriso). Il suo istinto materno è selvaggio, viscerale, attacca il nemico anche a costo di ritornare a casa con i denti rotti e sanguinante in ogni parte del suo corpo per via di scontri fisici con chi vorrebbe negargli le risposte che cerca.


L’inverno ha inaridito le praterie ma anche le teste e i cuori, sia di uomini sia di donne. Nessuno è disposto a rompere il tabù del silenzio, nessuno è disposto ad aprir bocca: l’omertà è il valore principale per chi ha scelto di far della malavita la sua filosofia. Se le figure maschili sono avverse e contrarie, dal cugino di Ree pronto ad approfittare dello sfratto forzato per prendere in adozione il piccolo Sonny al vecchio Thump che gestisce le sorti degli esseri umani come quelle delle mucche che porta al macello, le figure femminili sono solo strumento del potere dei loro uomini. Pochi gli sprazzi di solidarietà e molte le avversioni, fino a quando il coraggio della ragazza e forse l’istinto materno risvegliato nelle altre “femmine”, soprattutto nella donna di Thump, l’anziana Merab, concedono un bagliore di speranza, una possibilità futura. Come un raggio di primavera che scioglie la brina mattutina, Merab aiuterà Ree a ritrovare il padre in una scena colma di sofferenza e atroce crudeltà, dove il ruolo delle mani cambia radicalmente: da strumento di oppressione ad arma di liberazione, speranza. Così come in un taglio di erbe che infestano lo stelo, una motosega permetterà al piccolo fiore, Ree, di prendere e riprendere vita, grazie al ritrovamento del padre, delle radici che permettono di continuare a germogliare sulla terra cui è aggrappato.


Il freddo dell'inverno sembra aver congelato anche l’idea di famiglia. È tutto arcaico: gli uomini portano i pantaloni e le donne obbediscono, tacciono e subiscono violenze fisiche e psicologiche. Gli uomini dettano legge e a nessuna delle donne è permesso prendere decisioni né tantomeno chiedere. Parlare genera pettegolezzo e il silenzio omertoso non può essere rotto dalle chiacchiere della gente. Tutti sanno cosa è accaduto ma al tempo stesso celano la verità, la alterano e la modificano in base ai loro bisogni. Ree osa sfidare il sistema rompendo ogni regola tacita, porta i pantaloni e alza la cresta, il suo spirito militare è quello della difesa (ma non della propria): in maniera sfrontata sfida Thump e i suoi scagnozzi, accompagna lo zio Teardrop nelle sue ronde notturne, affronta a testa alta lo sceriffo e il creditore che si presentano alla sua porta, non si impressiona di fronte ad una palude che profuma di stantio e di morte.


Il finale, fatto di mezze verità emerse durante un viaggio di dantesca memoria, di attraversata dello Stige, e piacevoli scherzi del destino,  è un riconoscimento alla sua forza vitale che ha imposto lei come donna prima di tutto e come capobranco in secondo luogo. È come se il lupo della steppa di hessiana memoria avesse lasciato il suo isolamento cambiando leggi e sistemi di una società maschilista, arcaica e violenta, riflettendo prima di tutto sul proprio io, riappacificandosi con quella parte di sé tanto odiata e amata al tempo stesso, il padre, che le permette di elevarsi a “self made woman”. È come se l’odissea di Ree fosse un anomalo ballo delle debuttanti che inevitabilmente presenta la ragazza al mondo circostante, vincendone la diffidenza.


Capolavoro di regia mai banale, sceneggiatura attenta mai melodrammatica e gelida fotografia, la pellicola conta sull’interpretazione di una splendida ventenne capace di toccare vette inaspettate, di mostrare fierezza anche nel momento di massimo dolore fisico e di sprigionare orgoglio e coraggio attraverso la semplice postura fisica, Jennifer Lawrence. 

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati