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Budrus

Regia di Julia Bacha vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Budrus

di lostraniero
9 stelle

Il dio è dalla nostra parte. Questa è una affermazione che solleva terrore ed inganna – spesso – l’intelligenza che deve sempre presiedere nella soluzione dei conflitti. Anzi, è proprio lo slogan delle guerre cieche e dei massacri, delle epurazioni e dei genocidi, del sangue a cottimo e delle fanfare che sfilano sui raccordi anulari asfaltati a scheletri umani. In “Budrus”, invece, è la sintesi che fa – con un piglio tra il sorpreso ed il consapevole – Ayed Morrar, abitante di un piccolo villaggio palestinese (1.500 anime musulmane; una scuola, un piccolo cimitero, la gran parte delle famiglie che sopravvive con la produzione di uno squisito olio d’oliva) situato ad ovest nella West Bank. E la fa, questa sorta di sinossi teocratica, dopo aver condotto una lotta popolare e nonviolenta che – alla faccia delle più funeste previsioni –, ha portato gli agricoltori, le donne ed i ragazzini di Budrus a fronteggiare coraggiosamente il temibile Tzva HaHagana LeYisra'el. Lui è di Fatah, ma si è trovato al fianco anche Ahmed Awwad, rappresentante locale di Hamas. E poi ha avuto l’appoggio anche del Fronte Popolare. Ha trovato sponda in alcune organizzazione israeliane per i diritti umani. Son venuti, laggiù tra gli aridi campi del Governatorato di Ràm Allàh, pure dalla Svezia e dagli Stati Uniti per dargli manforte. E tra loro c’è pure Julia Bacha, una giovane documentarista di origine brasiliana che è in contatto con il gruppo di agitazione mediatico-culturale ‘Sabreen’ e con la no-profit ‘Vision’ di Rotni Avin, e che – come affermò qualche anno dopo in una intervista –, “inspirata da un film come ‘La battaglia di Algeri’ del regista italiano Pontecorvo”, vuole realizzare un documento visivo che faccia conoscere al mondo quello che realmente succede in Palestina.

 

 

Già, ma cosa sta succedendo, all’inizio degli anni 2000, in Palestina?

Mentre Ariel Sharon, il gran officiante dell’avanzata del ‘popolo eletto’ fin dentro ai territori ad est di Jerusalem, si prepara a dormire il sonno profondo del coma, lì su un letto dell’Assuta Hospital di Tel Aviv, ed il condottiero riluttante Arafat è già sulla via per il sonno della morte in qualche angolo ombroso del Ganna, i signori della guerra (Likud ed Hamas) stanno amorevolmente abbracciandosi nel sangue e nell’orrore che poi porteranno al climax dell’operazione “Piombo Fuso”. La ‘seconda Intifada’, quella che è stata pianificata con l’eliminazione preventiva di Rabin (“Doveva pagarla come traditore!”, urlava un militante ultraconservatore giudeo, a favore di telecamera, non più di otto mesi dopo la lama di Ygal-il-buono-Ygal-il-pazzo), con la rottura del patto di coesistenza tra posizioni estreme e meno oltranziste all’interno della galassia palestinese e con la sostanziale volontà della comunità internazionale di ‘punire’ qualunque realtà mediorientale fosse riconducibile al regime iracheno o non si fosse apertamente schierata contro ‘Coloro che cacciano e sparano’, gli abitanti di “Tah ran”. In mezzo alle centinaia di morti (che continuano) e ad un spaventoso disastro socio-economico (che cresce a livelli esponenziali), i palestinesi devono anche subire la costruzione di una valico, di una cinta muraria che divide e rende ancora più assediato il loro destino. Quello dei muri che cadono e che si rimettono in piedi, è un classico delle terre in questione, e stavolta le cose stanno per farsi davvero in grande. Questo è uno sbarramento particolare, però. Esso, nato come deterrente per le cellule terroristiche palestinesi che vogliono infiltrarsi nei territori e da lì compiere attentati contro gli insediamenti israeliani, viene presentato al mondo come un mezzo di sicurezza e di prosperità interne per le popolazioni palestinesi stesse. “Nessuno può mettere in discussione la volontà del nostro governo di assicurare ai palestinesi, integrità e possibilità di vita nuove”, scriveva in quelle settimane sulle pagine di ‘Maariv’ uno zelante cronista. Insomma, che colgano l’occasione propizia lì nelle stradine smunte di Shukba, che sappiano soppesare il conto delle rese tra le pozzanghere di Deir Qaddis, che inneggino al fraterno cemento ‘armato’ (the ‘concrete’) nei puzzolenti ovili di Bil’in e di Beit Lykia. Che la gente scenda in strada a gettare ramoscelli di ulivo sulle ruspe Cat e sulle camionette della Polizia di Frontiera... A Budrus, anche…

 

 

Budrus, estate 2003. Ayed Morrar per la prima volta guarda e riguarda le carte. Si convince subito di una sola cosa. Che quella gliene basta e avanza. Il muro, per come le autorità israeliane lo hanno previsto, taglia 360 acri di orti coltivati, toglie al villaggio il sostentamento di più di tremila secolari alberi di ulivo. Ma non è solo questo, c’è dell’altro. Il ‘benessere e la sicurezza portate dagli armati di Sion’, imprigionano il villaggio, troncano l’area dell’unico istituto scolastico, affettano in due addirittura il cimitero ed umiliano ogni cosa ed ogni uomo o donna di Budrus. “Due sono le possibilità che ci rimangono; o accettiamo tutto questo come volontà di Dio o iniziamo la nostra lotta!”. Il dio, quel dio è sempre lo stesso. La dignità e la fame, la generalità di sé o l’oblio comunitario, la vita e la morte sono in lui comprese. Anche il rifiuto di un’ingiustizia trova nella sua presenza (o assenza), ragione d’essere.

Inizia così la resistenza dei cittadini di Budrus, la piccola ed ininfluente Budrus verso la più cinica macchina burocratica dell’intero pianeta, contro il più possente esercito dell’intero Medioriente.

 

 

Detto che i 50 minuti di racconto filmico scorrono via suscitando interesse e partecipazione emotiva (che non sempre al cinema vanno appaiati, anzi), alcune altre cose vanno aggiunte. Anche se così concentrata in meno di un’ora, l’azione del narrato non è monolitica ed è abbastanza fluida anche la caratterizzazione delle parti in causa, tanto che alla fine davvero si arriva a comprendere l’importanza dei fatti di Budrus anche e soprattutto per come li hanno vissuti (in senso collettivo e privato), alcuni esponenti delle forze militari di occupazione. Il portavoce dell’esercito israeliano che ringrazia i protestanti per la natura nonviolenta della rivolta, e la giovane donna, guardia di frontiera, che viene chiamata per nome dalla donne del villaggio quasi a legare il destino comune che unisce loro e quella terra aggredita, sono due figure che hanno gravità e segnano profondamente il plot.

Ma sono i personaggi-chiave di Ayed ed Iltezam Morrar – padre e figlia –, a ricucire spesso il documentario quando esso pare spezzarsi in una cronaca, sì dolente ed elettrica ma anche piena di piccoli rivoli emozionali, di improvvise fratture di luce e di suono che risucchiano nel caos dell’accadere l’intera vallata del Natuf. Che minacciano di far diventare tutto materia da ‘breaking news’. Ci sono azioni umane – semplici, coraggiose ed istintive –, che riprendono per i capelli la nostra trepidazione di spettatori disarma(n)ti e fanno sì che il ‘report’ si mostri ‘narrative tale’, che quell’impressione iniziale che la Bacha vuol dare al suo lavoro (il film-ispirazione di Pontecorvo è mirabile nel suo coniugare l’immediatezza documentaristica ed il realismo critico), rimanga a colori pieni e vividi e che ci accompagni nei sussulti (e negli insulti) della storia trattata.

Tutto ciò è evidente in due momenti topici del film. (1) La sua parte più intima-pulsante, quando gli uomini e le donne del villaggio scendono ad affrontare i blindati, le ruspe e le canne dei fucili in difesa degli ulivi; quelli che un’enorme benna sta sradicando via dalla terra e quelli che tagliati fuori dal reticolato, non irrigati, morrano sotto la calura estiva. Lì è Iltezam a mettersi nel fosso scavato dal mostro di ferro, dando l’esempio alle altre donne che la seguono subito dopo, scegliendo di rischiare la propria vita per un senso di frustrazione profonda. (2) La sua parte più fisica-bellica, quando iniziano a fischiare le pallottole vere (i ‘live bullets’) da una parte e le pietre dall’altra, ed anche noi si attende che si versi la prima goccia di sangue perché tutto torni nell’ovvietà del delitto e della sopraffazione. In questo frangente, invece, è Ayed che tiene le fila del discorso, spingendo i vecchi e le madri del villaggio a rimproverare ai giovani ed agli adolescenti di aver accettato il linguaggio della forza – loro che possono solo essere immolati come vittime –, al posto dell’ostinazione e della bontà della causa comune.

Una doppia grande lezione di gilanìa, di potere materno di una comunità, sbattuta in faccia al soffocante pattugliamento androcratico che, in ogni West Bank di questo misero pianeta, sfila ad ogni ora d’ogni giorno d’ogni epoca.

Il dio che tutto comprende, ne avrà sorriso. Amorevole.

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