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Bronson

Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film

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La recensione su Bronson

di EightAndHalf
4 stelle

Elogio (estetico) della violenza. Come a volerla penetrare, analizzare, percorrere per filo e per segno, osservare in maniera diversa. Peccato che tutti questi infiniti, ammirevoli e giustificati in ben altre circostanze, qui siano costantemente accompagnati dall'avverbio 'ostentatamente'. Perché Refn, che ci ha abituato (prima e dopo questo piccolo Bronson) a ben altre riflessioni sulla maniera di guardare alla violenza (guardiamo alla frustrazione estatica di Only God forgives), qui tira la cordicina di una trottola che gira, gira, ruota attorno a se stessa, e che va costantemente rallentando, in un climax discendente che infastidisce non poco. Però questa trottola ha delle luci, che si accendono a intermittenza, un addobbo che tende a proiettare, sui corpi e sugli oggetti presenti nella pellicola, pluralità cromatiche delle più svariate, dal rosso al verde fin all'asettico grigio/bianco sporco di certe immagini fuori dalla prigione. Mentre la trottola procede veloce, all'inizio del film, siamo in grado di ripercorrerne estasiati la traiettoria, perché è talmente veloce da apparire leggiadra e quasi elegante nella sua calcolatissima deformità, nei suoi grandi contrasti immagine-musica (e quest'ultima qui interviene per dare un sempre maggior senso di disorientamento, per fallire poi praticamente ogni volta), nel fascino perverso di un sistema umano, quello dell'Inghilterra come quello dell'intera razza umana 'mediatica', in cui si cerca di diventare famosi e di esibirsi per raggiungere vette di fama da scalare e da ottenere, infine, nella maniera anche più barbara e ingiustificabile. In particolare Charles Bronson (soprannome per Michael Peterson) utilizza la violenza e la forza (esteriore) degli apparescenti muscoli (di Tom Hardy) per ottenere una fama che alla fine raggiunge, riuscendo a convertire in un chiassoso nonsense esistenziale il senso stesso della parola 'libertà', dunque rinchiudendosi piacevolmente in una cella in cui la sua morale alternativa gli impone di tentare sempre la strada dalla violenza (appariscente e osservata). Così come Bronson urla in continuazione, così Refn urla contro di noi, nelle sue immagini estetizzanti e nei suoi ghirigori musicali (tesi a colmare un vuoto stilistico senza precedenti né susseguenti in Refn), e in questa piatta dimostrazione di cosa voglia dire oggi 'apparizione' ed 'evidenza' (dovute alla fama), cade nella stessa trappola del mondo che accusa, un mondo vuoto e stralunato in cui il sangue non ha il carattere più umano dell'ossessione, ma è un mezzo, una pura utilità, e al contempo un obbiettivo, almeno la maniera per dare un (non)senso alla propria vita. L'intento più apprezzabile di Refn è quello dei riferimenti al teatro (in cui ancora una volta si ribadisce la voglia di Bronson [sia personaggio che film] di mostrarsi in maniera folle e grottesca [e questo sarebbe giustificabile, a voler entrare in maniera immersiva nella mente di questo criminale]) e quello delle ultime immagini in cui Bronson slabbra a livelli così apocalittici il concetto stesso di fama e di creatività da diventare egli stesso un'opera d'arte, moderna e contraddittoria, e per questo sporca, cruda, chiusa dentro una piccola cella, sanguinante quel rosso-sangue sempre presente (e tanto stilisticamente 'facile'). Eppure, se da un lato lo stratagemma narrativo del teatro subisce una frenata fin troppo brusca a metà film, per ricomparire alla fine come a voler dire "dobbiamo pur portarla da qualche parte, questa storia del 'palcoscenico' e della recitazione [nella vita come nel teatro] di questo nostro caro distante personaggio", dall'altro la facilità dello stile ostico e deforme porta a un'esplosione incontrastata e letale, proprio nel finale, di un kitsch davvero fastidioso, giunto al termine di una serie di stimoli visivi che, a livello prettamente istintivo, senza quindi discuterci sopra né niente di tutto questo, occupano il tempo che trovano, scorrono davanti agli occhi senza evocare nulla, attorcigliandosi, e non stupiscono, poiché non sono in grado di proporre quello sfarfallìo altalenante di attonito e di compiacimento che avrà Only God forgives e che aveva avuto in maniera molto più umile la trilogia di Pusher. Se l'intento di Refn era di rendere ancora più attuale il tema della violenza e delle assurdità ad essa legate nella modernità, questo stesso intento fallisce nel suo carattere più elementare, perché, sostanzialmente, annoia. Pseudo-sperimentalismo, che reca solo indifferenza.

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