Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
La voce baritonale di Scott Walker ci introduce solennemente al Mito. Bronson è un pericoloso leone in gabbia, un indomito bronzo ricoperto di sangue pronto a battersi contro tutto e tutti. La formazione, l'attitudine-vocazione alla violenza, la sublimazione della stessa da azione ad arte, la follia sottopelle. Eccessivo e provocatorio, di gran fascino. Un terzo teatro, un terzo avanguardia, un terzo cinema puro. Affinità con Kubrick nell'enigmatica fissità di certe immagini, nella sotterranea tensione, nell'esplosione improvvisa della rabbia e del furore combattivo, nella scelta di certo abbinamento musicale. Wagner, Verdi, Puccini a commento di incontri clandestini di boxe a mani nude, risse, rapine, carcere, manicomio criminale. E poi a sorprendere e irridere l'attonito spettatore New Order, Pet Shop Boys, l'elettropop anni ottanta. Sullo sfondo un'Inghilterra da incubo, alla deriva nei corpi e nell'anima. Tra le pieghe di un'invisibile normalità troviamo il fallimento delle istituzioni, la crisi dell'individuo, l'annientamento-negazione della speranza. Dipinti dall'ottima fotografia di Larry Smith, si alternano polverosi infeltriti squallidi e quasi sovraesposti quadri d'ambiente a cupe saturazioni da torture porn, a sottolineare la malata visionarietà della messa in scena. Tom Hardy gigioneggia e giganteggia e si aggira o blocca sullo schermo col ghigno sardonico di un imbattibile pugilatore da attrazione circense, un forzuto da inizi novecento che, nei monologhi interiori di 30 anni d'isolamento, dà il suo meglio come clown all'ingessato e assuefatto pubblico pagante. Se la punta dell'iceberg del cinema danese sono Nicolas Winding Refn e Lars Von Trier, temo da quelle parti abbiano grossi problemi da risolvere.
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