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Bronson

Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film

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La recensione su Bronson

di nickoftime
6 stelle

Un animale in gabbia. Michael Gordon Peternson, in arte Bronson, è il protagonista dell’ultimo film (in termini di distribuzione) di una regista improvvisamente popolare per il premio vinto all’ultima kermesse festivaliera. Ironia della sorte, perché se Bronson (personaggio realmente esistito) voleva essere famoso, e lo diverrà, a forza di cazzotti, dati e presi, all’interno delle prigioni in cui fu detenuto per la maggior parte della vita, così il film del regista danese lo è diventato in termini di spendibilità commerciale, grazie ad una visibilità diversa, indiretta, ma pur sempre legata ad un fenomeno circoscrivibile ai meccanismi della comunicazione.

 

Prodotto nel 2008 e girato in Inghilterra, Bronson (un irriconoscibile Thomas Hardy) sembra risentire, almeno a livello cinematografico, delle atmosfere grottesche e surreali che erano già state di Kubrick e del suo “Arancia meccanica”. In fondo entrambe le storie si toccano dal punto di vista cronologico e ci parlano di uomini fuori controllo. E se l’istanza sociologica era nel film del regista inglese una delle chiavi di lettura attraverso cui cercare di interpretare i comportamenti di Alex DeLarge, cosa che non avviene nel film in trattazione, quasi esclusivamente girato dentro la testa del suo personaggio, cionondimeno le similitudini continuano nello stile, che in entrambi i casi, anche se in Bronson in maniera esasperata, ci mostrano una componente visuale e sonora, utilizzata come linguaggio che si sostituisce alla parola scritta, per rendere in maniera sensoriale, le distorsioni mentali dei due protagonisti.

 

Ma lasciando Kubrick alla sua storia, e volendo rendere giustizia all’originalità dell’autore danese, non si può fare a meno di notare un segno di continuità con la sua più recente produzione (Walhalla Rising), non solo nell’ esposizione di super-corpi, modellati ancora una volta secondo un estetica che li riporta alle loro pulsioni primarie (la carne non pensa, agisce), ma per la presenza di una violenza non solo antagonista, ma anche mezzo di espressione artistica, usata per sublimare una realtà insoddisfacente. Passaggi che il film scandisce attraverso una serie di momenti che dalla mancata redenzione (la proposta amorosa rigettata è la testimonianza di un impossibile cambiamento), al tentativo di recuperare il detenuto attraverso l’esercizio artistico (il disegno, appreso da un insegnante molto particolare), per arrivare all’apoteosi finale, dove arte e violenza, questa volta unite nell’azione del protagonista, simboleggiano l’ennesimo sberleffo di un ribelle tout court.

 

Apprezzabile sotto il profilo produttivo per la capacità di ottimizzare le risorse, Bronson appare in certi momenti inconsistente per la fin troppo esibita teatralità di certe scene, per alcune ripetizioni (soprattutto nella proposizione delle scene di combattimento) e per una sceneggiatura che non riesce a dirci qualcosa di più a proposito del famigerato individuo. Thomas Hardy è strepitoso in una performance che almeno fisicamente potrebbe far invidia a certi maestri dell’Actor Studio. Peccato averlo scoperto solamente adesso.

 

 

 

 

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