Espandi menu
cerca
Bronson

Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film

Recensioni

L'autore

leporello

leporello

Iscritto dal 18 dicembre 2009 Vai al suo profilo
  • Seguaci 43
  • Post 5
  • Recensioni 666
  • Playlist 9
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Bronson

di leporello
8 stelle

Per l’incipit del film, Refn ritorna alla maniera della trilogia di “Pusher”, pur con qualche sostanziale variazione: il personaggio si presenta solo, su sfondo nero, guardando in camera, ma invece della consueta didascalia che ne reca il nome, questa volta Michael Peterson si rivolge al pubblico con la sua viva voce: “My name is Charles Bronson”. E Refn terrà incollato Tom Hardy a questa inquadratura per tutto il film, alternando a questa l’inquadratura di un palcoscenico di teatro, due luoghi differenti e simili dai quali il folle, violentissimo Michael-per-caso/Charles racconterà al suo pubblico della sua vita. Seguono quattro, cinque inquadrature statiche che scrutano il personaggio, il suo viso, i suoi baffoni ottocenteschi che sovrastano un frequente sorriso teatrale e beffardo, prima di metterlo a nudo (nudo-nudo) in una gabbia rosso-ferocia menando pugni all’aria a mo’ di boxer, in attesa della squadra di carcerieri che, per la prima di innumerevoli volte, lo massacrerà di botte per il suo enorme, smisurato  auto-compiacimento.  A Refn non piacciono i personaggi troppo banali: ci aveva provato con “Fear X”, ma gli era andata decisamente storta. E così, dopo i Pushers e poco prima di inventarsi il quasi mitologico “One Eye” di Valhalla Rising, va a scovare nella cronaca un personaggio vero, un gallese che, come recitano le didascalie a fine pellicola, “non sa ancora quando uscirà dal carcere”. Probabilmente mai, aggiungerebbe il buon senso. Michael Peterson è un folle istrione, alla disperata ricerca del suo talento, pronto a barattare libertà e integrità fisica pur di vedersene riconoscere uno. Quello che lui considera essere il suo vero, naturale talento è quello di saper recitare, ma “Don’t fuckin’ act”, racconta egli stesso malinconico nell’icipit. E così, mascherandolo di tanto in tanto da clown selvatico, con una breve ma efficace introduzione della sua infanzia e adolescenza (in vago sapore di Arancia Meccanica, con acidi Nabucchi verdiani in sottofondo, splendida l’espressione del viso di Michael alla pronuncia della sua prima sentenza di condanna per furto) Refn lo precipita nell’inferno della sua ricerca accompagnandolo a spasso per le carceri, inebriato dalla folle gloria della fama raggiunta per essere il carcerato più pericoloso d’Inghilterra, compiaciuto degli osanna dei reclusi inneggianti al suo feroce coraggio e alla sua brutale violenza. Il regista è molto bravo ad isolare il personaggio dal suo contesto: Michael è perennemente solo (non ci sono co-protagonisti nel film), la scena è tutta per lui, il peregrinare tra i carceri è la sua grande opportunità e insieme la sua sfavillante tournée di one-man-show. Il film vive un  momento di sospensione quando Michael viene trasferito dalle normali galere al manicomio criminale, tenuto costantemente sotto l’effetto di velenosi calmanti: l’impotenza alla quale il protagonista viene ridotto ricrea nello spettatore un senso di fastidio nauseante, la sensazione un laccio stretto alla gola che impedisce di respirare, segno che l’empatia con il personaggio è stata efficacemente creata. E dopo un breve periodo in libertà durante il quale Charles si cimenta nella carriera di boxer calato nell’ambiguo circuito degli incontri e delle scommesse clandestine, trovato il tempo di innamorarsi a vuoto di una donna glaciale quanto ninfomane, a causa di (meglio dire grazie a)  lei ritroverà la strada delle sue amate carceri, giusto il tempo di scoprirsi artista anche nel campo della pittura, prima dell’inevitabile epilogo, massacrato oltre ogni limite dalle guardie carcerarie, rinchiuso in una gabbia di isolamento.

Nicolas Winding Refn si dimostra con questo film regista maturo e pronto per ritagliarsi un posto d’eccezione nella categoria dei registi “maledetti” (almeno così voglio  credere, sperando in un definitivo abbandono delle turturrate alla Fear X o delle Miss Marple). La distribuzione italiana, che fino ad ora lo ha colpevolmente snobbato, ha ora deciso di portare nelle sale “Valhalla Rising”, presentato al Festival di Roma, se non erro, due anni fa. Speriamo che serva a farlo conoscere quanto più possibile, dando ancora uteriore sostanza a una cinematografia (quella danese) che, non mi stancherò mai di dire, è una delle più interessanti del momento.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati