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Il rifugio

Regia di François Ozon vedi scheda film

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La recensione su Il rifugio

di lao
8 stelle

Uomini e donne, eterosessuali ed omosessuali, borghesi ed emarginati,  raccontati  dal regista eclettico Ozon nel  “Rifugio"sono in realtà  transfughi dalle classe sociale di provenienza nonché da ruoli, etichette e mestieri imposti: turisti senza  itinerario prestabilito veleggiano sul vasto oceano non troppo lontano dalle rassicuranti coste,  scrutano l'orizzonte per trovare punti di approdo, vi si fermano per una breve sosta e poi, alleggeriti nel peso dei bagagli, ripartono. Una soleggiata dimora sul mare accoglie, rifugio provvisorio, la sbandata Mousse incinta di Lous morto di overdose e Paul il fratello gay di lui: perché stanno lì, da dove vengono e dove sono diretti? Ma è proprio il bisogno di sfuggire a domande cosi incalzanti a costituire   il vero motivo della prolungata vacanza e soprattutto a fondare fra loro il più solido dei legami, corroborato simbolicamente da un poco credibile  rapporto erotico: trovare una risposta significherebbe essere prigionieri di un passato traumatico e di un futuro già scritto. La difficile rielaborazione del lutto per il compagno amato e le fatiche della disintossicazione condannerebbero lei alla ricaduta nell’oblio  dell’eroina, eppure lei  sceglie di essere madre cosciente e di chiedere agli altri, persino al dongiovanni incontrato in un bar,  la tenerezza di una solidarietà affettiva; lui, figlio adottivo, memore per di più di una vita familiare tormentata a causa del fratello drogato, dovrebbe essere votato al libertinaggio gay,  invece persegue la stabilità di un rapporto duraturo e vede in una paternità non obbligata lo strumento privilegiato per realizzarsi. Dunque un’umanità senza qualità, agnostica quanto a fedi e valori, dall'identità leggera, disponibile alle metamorfosi, in perenne vagabondaggio alla ricerca di se stessi, irremovibile nel rifiuto del martirio psicologico dettato dal puro istinto di sopravvivenza: dopo il naufragio della ragione esclusivamente la vocazione a seguire il libero impulso, a prendere chi o quello che capita è la zattera che consente di stare a galla.    Nulla più che uno stato d'animo certo, quel quid di ineffabile che l'elegante regia di Ozon isola nei protagonisti, affidandosi ai movimenti dei corpi, ai gesti, alla ninnananna di un pianoforte e al non detto di dialoghi sospesi.   Forse l'ingombro di un nome portato fin dalla nascita oggi non lo avverte più nessuno, peccato che, tornati dalle vacanze,  "Il fu Mattia Pascal" non sia lettura così anacronistica.   http://spettatore.ilcannocchiale.it

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