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Valhalla Rising. Regno di sangue

Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film

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Badu D Shinya Lynch

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La recensione su Valhalla Rising. Regno di sangue

di Badu D Shinya Lynch
8 stelle

 

Odissea in un altro spazio

 

"Il film comincia in modo molto frenetico, con violenza e azione, ma poco a poco comincia a schiudersi. E tu devi solo accompagnare il movimento. Se cerchi di lottare contro di esso, o se cominci ad analizzarlo, ti perdi. Devi semplicemente lasciarti andare. Quando si fissa qualcosa per troppo tempo, si comincia a guardare al di là dell'oggetto, nel vuoto. È quasi come la meditazione o l'ipnosi. Il film è costruito in questa maniera."

- Nicolas Winding Refn -

 

Valhalla Rising è un atemporale trip lisergico nella natura umana, nella sua essenza ancestrale. Un film che trova il suo senso, la sua forza, nel significante ciclico: simboli e figure di un'epoca che sono destinati a reiterarsi. La Storia non può che replicarsi: il sacrificio, la figura cristologica, il male, il fallimento. Cinema dell'Immagine, dei sensi, di sottrazione, che comunica con lo spettatore per via archetipale. Valhalla Rising è un film viscerale, che nasce come urgenza, come urlo muto di una spiritualità andata perduta, devota al caos e ai dogmi. E' tributo al silenzio e alla purezza svaniti, immersi nella nebbia di un'era corrotta. Viaggio interiore nell'odio e nel declino, quindi nell'umanità più reale ed attuale. Quella superstiziosa, guerrafondaia, colonizzatrice. Che porta la propria parola attraverso la forza bruta e infimi comportamenti. Un'opera fondata (anche) sull'impenetrabilità degli sguardi, sull'impercettibilità dei gesti. Una pellicola che mostra la ferocia insita negli esseri umani, che la esplicita come errore antropologico destinato a ripetersi in futuro, in eterno. Quindi un lungometraggio iniziatico, che palesa il degrado, la rovina di un determinato secolo, che è specchio scarnificato, minimale di tutti gli altri periodi (incanalati verso la distruzione, lo sfacelo, come un effetto domino inarrestabile). Violenza, incomunicabilità, arroganza. Valhalla Rising è un eco eterno, incessante e lacerante. Quasi un'opera mitologica, che cresce all'interno dello spettatore, che ne dilata la percezione, non fornendo spiegazioni. Un resoconto cosmico (e nordico) dell'insuccesso di civilizzazione. I sentimenti più estremi dell'Uomo sono reincarnati nel protagonista, un odino senza un occhio: spietatezza, rancore, immolazione. Egli è semplicemente lo specchio primordiale dell'essere umano, la manifestazione della sue emozioni primigenie. Uno schiavo, un Dio, un Diavolo vendicativo e furioso - quindi "umano" -, che viaggia di epoca in epoca.

 

One Eye, colui che "non è appartenuto a nessuno per più di cinque anni", è rinnegato, come gli altri, ai margini dell'inquadratura, dell immagine*; proprio perché è l'essere umano che sceglie consapevolmente di rimanere ai lati, in disparte, spostato rispetto alla centralità universale, spirituale. Rinchiuso da se stesso, in se stesso, debole e corrotto. Non si sforza di cercare il centro, l'equilibrio, o lo desidera talmente tanto che non si accorge di superarlo, cioè non lo vede, cieco da entrambi gli occhi. Quindi si auto-rinchiude, si auto-esclude all'interno di una prigione esistenziale e visiva. E' incatenato nella stessa visione, ai bordi di essa, proprio perché è prigioniero del mondo, nel mondo. In cui la purezza deve essere liberata, ritrovata, resa celeste. Di conseguenza si cerca la redenzione. Finalmente quando ci si redime cambia anche anche l'inquadratura, e ci si accentra, si trova la stabilità vitale. Come il vecchio che, verso la fine del film, è illuminato**. E come One Eye che, finalmente, è anche oltre il centro, al di là, fuori dall'inquadratura, sparisce dall'immagine, lasciando solo l'equilibrio - simboleggiato dalla piccola costruzione che egli ha creato con le pietre - nel mondo e nell'immagine***, purificando quindi l'umanità e la stessa visione.

 

Uno dei cristiani dice che Gesù Cristo ha sacrificato la sua vita perché gli esseri umani fossero liberi dal dolore e dalla sofferenza: quindi è come se One Eye fosse il (di) nuovo Cristo ,che oltre a portarsi sulle spalle i sentimenti negativi e le cattive azioni degli esseri viventi, stavolta li assorbe pure, manifestandoli, ripetendo i loro gesti. Un Cristo che è quindi barbaro, Uomo, riflesso fisico di una realtà bestializzata, inquinata fino al midollo, altezzosa, superficiale, maligna. One Eye, di conseguenza, guida, al di là del Verbo, chi si è perso. Senza sconti, senza perdono, senza compromessi. E a perdersi, stavolta, è l'intera umanità. Le persone, durante il film, si dirigono verso un luogo apparentemente vergine; un nido che è la proiezione naturale di una spiritualità sverginata, contaminata. Falso Paradiso nel quale Cristo non ha più compassione per la meschinità. Natura che accoglie il male primitivo, la corruzione atavica dell'animo. Ed è quasi una nuova odissea nello spazio in cui si imparano le prime emozioni, nella quale si apprende l'odio, la rabbia, il rancore, l'insolenza. Tornano ad essere umani, uomini corrotti. Religiosi. Con un solo Dio. Quindi presuntuosi, saccenti, frivoli, chiusi. Infetti. Si apprende il male, si sceglie di assimilarlo, si preferisce quello rispetto al bene; la guerra rispetto alla pace. E lui, One Eye, è forse il nuovo monolito nero alla quale assurgere. Imparare. Apprendere tutto ciò, i sentimenti da cui è più attratto lo spirito debole, ciò che è più facile, apparentemente utile e necessario, indispensabile in quel momento (infinito) per sopraffare il prossimo e far valere in maniera totalitaria la propria volontà, la propria opinione. Ognuno dal monolito prende ciò che gli sembra essere più funzionale e comodo per raggiungere i propri scopi - che poi, forse, avere uno scopo da raggiungere a tutti i costi, con bramosia, è già sinonimo di decadimento, di decomposizione vitale -, come le scimmie all'alba dei tempi nel film di Kubrick.

 

I cristiani vogliono portare la parola di Dio. Ma nel silenzio dell'inviolata natura non è essenziale. One Eye non ha bisogno di proferire parola, perché è proprio essa che maschera, che avvelena, sporca. Che allontana. Quindi è un involversi indispensabile per ritrovare se stessi. E' lui il vero portatore di luce. Il buio è tutto attorno. Nella superficie e superficialità. Gli altri distruggono, chiamano sangue, ansimano, etc. One Eye crea. Trasforma. È una figura che porta (al)la redenzione e parallelamente la cerca. Il Valhalla. Ciò che si credeva fosse il paradiso, si dimostra piuttosto essere l'inferno. Si deduce, da qua, che il paradiso non esiste, proprio perché l'uomo non lo vuole, non anela ad esso, non gli interessa. L'Eden è nella Fine, nel ritorno all'Uno, nel sacrificio per ciò che rimane puro e inalterato - in questo caso rappresentato dal bambino, speranza intatta per un futuro luminoso, che mandi avanti l'umanità in tutta la sua integrità esistenziale. Ed ecco che One Eye sceglie. Si dona. Il resoconto è semplice: Gli uomini hanno sbagliato, il bambino no. Bisogna superare questa dimensione infernale, per (ri)trovare il disinquinato, come suggerisce il bambino: "entrare nella foresta". Foresta: unica via d'uscita, o d'entrata. Casa. Dimora primordiale in cui ognuno possa raggiungere il proprio Valhalla. One eye non li ha portati all'inferno, ma glielo ha solo mostrato, sono poi loro che hanno voluto sprofondarci all'interno, consapevolmente.

 

Egli non è un eroe, è un non-eroe. Un anti-eroe che si sacrifica per liberare il ragazzo. Questa piccola e candida creatura si salverà. Unico spiraglio di luce per l'uomo. Il nuovo feto stellare che farà continuare la vita dell'essere umano. Una positiva spinta coscienziale per il futuro del mondo. Il monolito - One Eye -, appunto, si abbandona per ciò che è puro. Si lascia sconfiggere da ciò che l'essere umano non ha saputo respingere e ha scelto di portare avanti: la violenza. Ritrova l'equilibrio all'interno del caos, come ciò che ha costruito - il dolmen fatto di sassi - nel mentre che tutto attorno a lui bruciava, negli istanti in cui tutti si tradivano e distruggevano a vicenda. Il finale, più che un arrendersi, è un rendersi alla vita, un concedere piuttosto che cedere [un parallelismo si potrebbe fare con il finale di Only God Forgives]****. Tornare, restituirsi ad essa. La ricerca della Fine è giunta a termine, ritrova la pace, rientra nella placenta dell'universo, in quel grembo inviolato e inviolabile, al Valhalla. Paradossalmente alla non-vita in cui tutto esiste nella sua non-forma. In cui ogni cosa è. Ecco che avviene un battesimo capovolto, finale, ultimo. Il fiume. L'oceano. Si ritorna all'origine, al silenzio. Al ventre della natura. All'Uno. Un viaggio che già da subito sembra destinato ad un insondabile e stimolante insuccesso, come un Aguirre più ipnotico, più estetizzante, più introspettivo. Valhalla Rising è un film magnifico e conturbante, fotografato in maniera sublime e diretto magistralmente con dei straordinari primi piani che bucano lo schermo.

 

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