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L'occhio del ciclone

Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film

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La recensione su L'occhio del ciclone

di degoffro
6 stelle

Rec breve

Spiace dirlo ma “In the electric mist” di Bertrand Tavernier è un giallo confuso, artificioso e un tantino velleitario. Forse non è un caso se per la prima volta nella sua carriera, se si eccettua “Quarto comandamento” che era stato scritto dalla fidatissima moglie Colo, la sceneggiatura del film non porta anche la sua firma. “In the electric mist” è scritto infatti da Jerzy Kromolowski e Mary Olson-Kromolowski che nel 2001 avevano sceneggiato per Sean Penn l’ottimo “La promessa”, ma in questo caso, purtroppo è il caso di dirlo, non mantengono…le promesse. E’ infatti proprio la sceneggiatura il vero punto debole del film, tratta dal romanzo di James Lee Burke, noto come il “Faulkner del noir”, “In the electric mist with confederate dead”. Se però “L’orologiaio di Saint Paul” e “Colpo di spugna” (giusto per citare altri due titoli del regista tratti da romanzi) erano rielaborazioni molto personali, coraggiose, vive ed appassionanti dei testi di Simenon e Thompson, “In the electric mist” ha una messa in scena piuttosto scolastica, meccanica, quasi svogliata ed anonima, il che è insolito per Tavernier. Ciò che manca, oltre ad un maggiore approfondimento dei personaggi, qui tratteggiati in modo troppo superficiale, approssimativo e schematico sono la fluida abilità del racconto che aveva reso avvincente un film complesso di quasi tre ore come “Laissez-passer” (questo, invece, a conti fatti, è anche leggermente noioso) ma soprattutto il profondo sguardo morale di Tavernier, quell’occhio lucido capace di raccontare senza compromessi o facili scorciatoie la nostra grigia ed avvelenata società. “In the electric mist”  resta un film corretto, diligente, onesto ed elegante ma anche convenzionale, freddo e risaputo. Se fosse stato diretto da uno dei tanti mestieranti di Hollywood ci si poteva anche accontentare, considerato che invece porta la firma di uno dei più prestigiosi e completi autori europei, non si può negare la parziale delusione. Paludoso.

Voto: 6

“Nei tempi antichi si ponevano delle pietre pesanti sulle tombe affinché gli spiriti dei morti non tornassero a tormentare i vivi. Ho sempre pensato che si trattasse di una usanza superstiziosa di popoli primitivi. Ma ero sul punto di scoprire che i morti possono aggirarsi, fin quasi ad apparire, nella densità e luminosità della nebbia. E le loro rivendicazioni sul mondo sono più legittime e insistenti delle nostre.” (Dave Robicheaux)
New Iberia. Il detective Dave Robicheaux deve indagare sull'efferato omicidio di Cherry LeBlanc, una ragazza diciannovenne trovata in un bosco barbaramente mutilata. L'indagine si intreccia con il ritrovamento di uno scheletro umano incatenato nella palude dell'Atchafalaya (“L’uragano Betsy del ’65 l’avrà sotterrato e Katrina l’ha disseppellito!”), dove una troupe cinematografica sta girando un film ambientato durante la Guerra Civile. Strane visioni intanto tormentano il detective, visioni nelle quali Dave discute con il vecchio generale confederato John Bell Hood. Spiace dirlo ma “In the electric mist” di Bertrand Tavernier, presentato in Concorso a Berlino e ancora inedito nelle sale italiane (avrebbe dovuto distribuirlo con il titolo “L’occhio del ciclone” la Mikado la primavera scorsa, poi se ne sono perse le tracce), è un giallo confuso, artificioso e un tantino velleitario. Premessa indispensabile: ho visto la versione americana (sottotitolata in francese) di 102 minuti (negli States peraltro il film è uscito solo in dvd dopo i notevoli contrasti del regista con la produzione) e non quella presentata a Berlino di 117 minuti, il che potrebbe spiegare qualche passaggio narrativo non del tutto chiaro, ma l’impressione generale è che il buon Tavernier, in occasione di questa sua trasferta americana, si sia, forse inconsapevolmente, adagiato sugli standard non proprio esaltanti degli analoghi prodotti made in Usa (non ci sono derive action né un montaggio frenetico, il film si prende i suoi tempi e vanta una maggiore introspezione psicologica, ma il risultato è comunque macchinoso e prevedibile). Forse non è un caso se per la prima volta nella sua carriera, se si eccettua “Quarto comandamento” che era stato scritto dalla fidatissima moglie Colo, la sceneggiatura del film non porta anche la sua firma. “In the electric mist” è scritto infatti da Jerzy Kromolowski e Mary Olson-Kromolowski che nel 2001 avevano sceneggiato per Sean Penn l’ottimo “La promessa”, ma in questo caso, purtroppo è il caso di dirlo, non mantengono…le promesse. E’ infatti proprio la sceneggiatura il vero punto debole del film, tratta dal romanzo di James Lee Burke, noto come il “Faulkner del noir”, “In the electric mist with confederate dead” (il sesto della serie dedicata al personaggio di Dave Robicheaux, peraltro molto amato anche dall’attore feticcio di Tavernier, Philippe Noiret a cui peraltro avrebbe voluto proprio per questo dedicare il film, ma non ha potuto per oscure ragioni di diritti) pubblicato in Italia prima da Mondadori poi da Fanucci con il titolo “L’occhio del ciclone”. Protagonista appunto Dave Robicheaux, poliziotto con il vizio del bere (l’incipit è inequivocabile con Dave al bancone di un bar e la voce over che annuncia ”Mi chiamo Dave Robicheaux. Sono alcolizzato. Talvolta sono tentato di bere un bicchiere, ma resisto!”) qui interpretato da un efficace e ruvido Tommy Lee Jones (nato per la parte) ma già al cinema con il volto di Alec Baldwin nel modesto “Omicidio a New Orleans” di Phil Joanou del 1996 tratto dal romanzo “Heaven’s prisoners”, pubblicato in Italia da Baldini & Castoldi come “Prigionieri del cielo”. A onore del vero anche il romanzo, a livello di giallo, pur a tratti interessante, non è particolarmente originale, ma è molto incisivo, convincente ed evocativo sia nella descrizione dei luoghi e delle atmosfere sudate, malate e razziste della Louisiana sia nella limpida definizione dei caratteri (elementi che inevitabilmente avranno fatto la gioia del regista dal momento che sono tratti distintivi del suo cinema, ma qui non adeguatamente sfruttati sullo schermo). Tavernier, come quasi sempre quando parte da opere di altri, rimane sostanzialmente fedele alla pagina scritta, tanto che alcune scene e dialoghi sono identici al romanzo: penso per esempio all’incontro al ristorante tra Dave e il boss Baby Feet Balboni preceduto dalla divertente sequenza in cui Dave buca tutte le ruote della limousine di Baby Feet, alla visita sul set cinematografico con il colloquio con il regista, all’omicidio di Kelly sulla barca o alla sparatoria notturna che porta alla scoperta del cadavere di Amber e alla quasi incriminazione di Dave, fino alla resa dei conti con l’assassino. Cambia solo qua e là l’ordine cronologico di alcuni episodi (per esempio la visita a New Orleans nel romanzo è quasi all’inizio della storia, qui verso la fine), viene attualizzato il contesto (si parla di Katrina mentre il libro è del 1994), manca l’importante riferimento agli snuff movie di cui sono protagoniste le ragazze uccise, è tolto sia il ricordo dell’episodio in cui Balboni in gioventù salva Dave da un’aggressione (c’è solo un fugace accenno di un favore che Julie in passato ha fatto a Dave) sia quello in cui Dave viene stordito da Balboni con un palla da baseball salvo poi essere aiutato dal braccio destro del boss, Cholo, mancano alcuni riferimenti al passato travagliato di Rosie, la collega di Dave, sono ridotte le apparizioni del generale. Nella sostanza però il testo è rispettato. Se però “L’orologiaio di Saint Paul” e “Colpo di spugna” (giusto per citare altri due titoli del regista tratti da romanzi) erano rielaborazioni molto personali, coraggiose, vive ed appassionanti dei testi di Simenon e Thompson, “In the electric mist” ha una messa in scena piuttosto scolastica, meccanica, quasi svogliata ed anonima, il che è insolito per Tavernier, sempre molto scrupoloso anche in prodotti di puro intrattenimento come per esempio il vivace “Eloise, la figlia di D’Artagnan”. La vicenda procede piuttosto stancamente, senza particolari sorprese o sussulti (limite peraltro riscontrato anche nel romanzo, come già detto), l’incrociarsi delle due storie principali (gli omicidi di alcune ragazze e il linciaggio di un nero di trent’anni prima di cui il giovane Dave era stato testimone) è piuttosto forzato, dispersivo, casuale, i personaggi sono stranamente abbastanza stereotipati e semplicistici (soprattutto il boss Baby Feet interpretato dal bravo John Goodman ma anche l’attore ubriacone impersonato da Peter Sarsgaard), le apparizioni oniriche del generale John Bell Hood, quasi la coscienza di Dave, nel romanzo più numerose, articolate ed essenziali, potrebbero essere suggestive ed intriganti ma a conti fatti risultano posticce, fasulle e ovvie, la soluzione finale è affrettata ed involuta. Restano la buona prova degli attori, un discreto ritmo, la bella immagine finale, peraltro ripresa anch’essa dal romanzo (la figlia di Dave riconosce anche il padre tra i militari di una foto della guerra di secessione sul libro di storia), l’ambientazione nella New Orleans post katrina. Bisogna però ammettere che anche sotto questo profilo Tavernier non è particolarmente ispirato e non riesce a cogliere appieno l’anima sofferente e travagliata di questi posti se non attraverso fugaci riprese o sporadici dialoghi affidati al bel personaggio di Hogman, il che è strano considerato non solo la ricchezza e la densità in questo senso delle pagine di James Lee Burke in cui in diversi passi si respira palpabilmente l’aria soffocante, viziata e pericolosa della Louisiana ma anche sia il prezioso documentario che il regista ha dedicato al Mississipi, sia il precedente “La piccola Lola” dove bastavano poche pennellate per inquadrare la condizione attuale della Cambogia. Ciò che manca, oltre ad un maggiore approfondimento dei personaggi, qui tratteggiati in modo troppo superficiale, approssimativo e schematico sono la fluida abilità del racconto che aveva reso avvincente un film complesso di quasi tre ore come “Laissez-passer” (questo, invece, a conti fatti, è anche leggermente noioso) ma soprattutto il profondo sguardo morale di Tavernier, quell’occhio lucido capace di raccontare senza compromessi o facili scorciatoie la nostra grigia ed avvelenata società. D’accordo il personaggio di Dave ha uno spirito molto alla Tavernier, dal momento che è un uomo di legge con le sue ombre, contraddizioni e debolezze il quale, seguendo anche i consigli del generale, prosegue determinato sulla sua strada senza tradire i suoi principi o abbandonare la sua causa, perché, come gli dice il saggio Hogman “Il passato è passato e non bisogna scherzarci”. Non mi pare però che abbia la forza emotiva ma anche etica, politica direi, di altri celebri personaggi del cinema dell’autore di Lione (penso al maggiore Dellaplane di “La vita e niente altro” ma soprattutto al detective Lulu di “Legge 627”). E sia la descrizione delle connivenze radicate tra autorità e malavita (il boss Balboni è uno dei produttori del film che si sta girando in quelle zone, attività destinata a portare diversi introiti economici alla comunità), sia la constatazione dei grossi affari che la mafia ha potuto fare a New Orleans dopo Katrina sia l’idea che prima o poi bisogna necessariamente guardare in faccia il proprio passato per poter affrontare con maggiore consapevolezza e serenità il presente (vedi la citazione iniziale tratta dal film, ma anche il dialogo conclusivo tra Tommy Lee Jones e Ned Beatty, il cui personaggio è fin troppo defilato) hanno uno sviluppo telefonato e sbrigativo, solo accennato. “In the electric mist” che in sede tecnica si è avvalso di alcuni dei collaboratori che Tommy Lee Jones ha utilizzato sul set del suo splendido “Le tre sepolture” (ma per la fotografia il regista non ha rinunciato al suo collaboratore di fiducia Bruno de Keyzer), resta così un film corretto, diligente, onesto ed elegante ma anche convenzionale, freddo e risaputo. Se fosse stato diretto da uno dei tanti mestieranti di Hollywood ci si poteva anche accontentare, considerato che invece porta la firma di uno dei più prestigiosi e completi autori europei, non si può negare la parziale delusione. Il regista del film nel film è interpretato, con gustosa ironia, da John Sayles il cui non troppo dissimile “Stella solitaria” era peraltro assai più convincente ed intenso.
Voto: 6

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