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Alice in Wonderland

Regia di Tim Burton vedi scheda film

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La recensione su Alice in Wonderland

di FABIO1971
6 stelle

Il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, alias il matematico e scrittore Lewis Carroll, pubblicò tra il 1865 e il 1871 i suoi due capolavori Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò quando ancora il cinema non esisteva: i primi due registi, in coppia, che si cimentarono nell'impresa di trasformarli in film (Cecil M. Hepworth e Percy Stow, nel 1903), all'epoca dell'uscita dei due libri non erano neanche nati (nel 1873 il primo e nel 1876 il secondo), ma recuperarono il tempo perduto, visto che già ad una ventina d'anni d'età, all'epoca della loro Alice in Wonderland, avevano girato, più o meno, una ventina di film a testa, intuendo da subito l'enorme potenziale spettacolare dei personaggi di Carroll (che però morirà pochi anni prima della realizzazione del primo film, senza, quindi, aver avuto la possibilità di giudicarlo): eppure la visionarietà di quelle pagine immortali non ha mai trovato un corrispettivo sul grande schermo altrettanto degno della loro potenza evocativa (forse solo Svankmajer...). Non sfugge a questa tendenza neanche l'Alice in Wonderland di Tim Burton, che, anzi, smarrisce, accostandosi ai due testi sacri, complice la produzione made in Disney, gran parte della propria incontenibile virulenza macabro-gotica. La rilettura di Burton, infatti, affidata alla sceneggiatura della Linda Woolverton che firmò il copione di Il re leone e collaborò con la Disney anche per La bella e la bestiaAladdin e Mulan, appiattisce in una bidimensionalità di sterile suggestione emotiva i personaggi, quelli sì, tridimensionali delle pagine di Carroll, smarrendone spesso i fermenti più vitali e connotando l'intera operazione più come un remake della Alice disneyana che come una personale rielaborazione dei testi originali: l'idea più "audace" dello script, infatti, consiste nel trasformare la giovane protagonista (Mia Wasikowska) in una diciannovenne (e contestualmente, quindi, il film in un sequel), che torna, senza serbarne ricordo, nei luoghi visitati da fanciulla. Innestando felicemente spunti di Attraverso lo specchio nel canovaccio più universalmente conosciuto di Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie (i personaggi della Regina Rossa e della Regina Bianca, impersonate sullo schermo da una spassosa Helena Bonham Carter e da Anne Hathaway, Tweedledee e Tweedledum, ovvero i nostri Pancopinco e Pincopanco, interpretati da Matt Lucas, il Jabberwock, cioè lo spaventoso e sanguinario baubau volante che diviene Ciciarampa nella versione nostrana e che in quella originale è doppiato da Christopher Lee), Burton si guarda bene dal contaminare la purezza del testo con le derivazioni dark del suo talento visionario: ovviamente l'iconografia estetica burtoniana che ammanta il film emerge prepotentemente dalla girandola di meraviglie visive in cui precipita lo spettatore, ma l'accostamento a Carroll è sempre scolastico, spesso di flebile respiro e con movenze meno deliranti delle aspettative. Manca la trasfigurazione in poetica, manca il brivido del "sense of wonder", annacquato nel "rispetto disneyano" verso la "propria" Alice, che già limitava le qualità della versione del 1951, manca la novità di un approccio "altro" ad una fantasia "altra", come se gli universi incantati di Burton, se messi di fronte a quelli evocati da un'altrettanto fervida e potente fantasia (lungi dal volerle paragonare, naturalmente), non sappiano tradurne i differenti umori che la pervadono per limitarsi a ricrearne solo il substrato più immediatamente definibile e riconoscibile. Ecco, quindi, che lo Stregatto, il Bianconiglio, il Johnny Depp dagli occhi verdi del Cappellaio Matto, il pazzerellone Leprotto Bisestile (l'unico che riesca a strappare qualche sonora risata), il Brucaliffo attraversano lo schermo con movenze consuete e senza mai realmente coinvolgere nelle loro danze sfrenate il fanciullino che dovrebbe albergare dentro di noi. Ma non si resta scossi neanche dalla spinta in chiave neo-romantica e libertaria con cui l'Alice diciannovenne del film tenta di affrancarsi dalle imposizioni opprimenti delle convenzioni sociali: stavolta, infatti, il paese delle meraviglie non è solo il luogo dove fuggire dalla realtà, ma diviene anche la chiave di volta per accelerare il trionfalistico trapasso della protagonista nell'età adulta. Ma questo pedale non viene mai spinto realmente fino in fondo, incagliandosi nell'esibizione virtuosistica di un universo da sogno (o incubo) ad occhi aperti, raramente efficace nel sorprendere lo sguardo (e nell'appassionarne il cuore) dello spettatore (per tacere della "deliranza" del finale, vera e propria nota stonata dell'intero film). Primo dei due film previsti dal nuovo contratto di Burton siglato con la Disney (il prossimo sarà il remake-lungometraggio del suo Frankenweenie), girato in 2D mescolando live action ed animazione in motion capture e poi convertito in 3D con modesti risultati (specie se paragonati a quelli conseguiti da Cameron e Zemeckis), Alice in Wonderland non naufraga nell'apologo pedagogico-buonista solo perchè, ad esempio, il fossato intorno al castello della Regina è pieno di teste decapitate, i cieli sono sempre plumbei e minacciosi, i boschi spettrali: i marchi di fabbrica del "Burton's touch" sono sempre evidenti, accompagnati come consuetudine dalla colonna sonora di un Danny Elfman in gran forma (peccato per l'inutile Alice di Avril Lavigne durante i titoli di coda) e sorretti da un decòr visivo di straripante resa spettacolare, ottimamente ricreato dalla fotografia di Dariusz Wolski (Il corvo, Dark City, Sweeney Todd e i vari Pirati dei Caraibi, tra gli altri) e dallo straordinario team di art directors, e finiscono per purificare con scintillante raffinatezza stilistica il disneysmo latente che ne innerva le venature meno sui generis. Se Alice in Wonderland, pur rimanendo decisamente un'occasione sprecata, non costituisce un ignobile tonfo nella carriera del suo autore, lo si deve al sorriso sulle labbra che affiora (faticosamente, ma affiora...) durante la visione, ad un'Helena Bonham Carter addirittura irresistibile nella sua "bulbesca" calotta cranica, ad alcune sontuose sequenze genuinamente burtoniane (l'arrivo di Alice nel paese delle meraviglie, su tutte), all'eterno fascino fanciullesco del racconto, alla magia di immagini stupefacenti a cui manca solo (solo?) quel po' di calore per appassionare veramente.

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