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Il lungo addio

Regia di Robert Altman vedi scheda film

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La recensione su Il lungo addio

di lostraniero
8 stelle

Ma è dalla menzogna che nasce la verità? E cos’è l’amicizia se non è la fuga dopo un delitto? Può il sudario immobile della vendetta, fasciato da bianche bende, regalarci la musica nell’ultima inquadratura (campo lungo), di questo ‘filmopera’ di Robert Altman che apre il tema malconcio della malinconia, del rancore, del sangue inferto e del sangue offerto?... Non si può vedere questo “The long goodbye” senza collegarlo, anche semanticamente, al successivo “Thieves like us”; stessa arguta solitudine di gesti, prontezza similare di colpi di macchina… Un ‘movimento’ che accelera l’immobilismo del giudizio morale sulla ‘Nazione’ che diventa ‘nazione’, sul ‘Grande paese’ che sconfina nel ‘piccolo archetipo’ dove l’inganno ha solo il tempo materiale di trovarsi davanti alla canna brunita di una Colt, ad una machine-gun, ad un biglietto da 5.000 dollari, e mostrare spudoratamente il foro d’entrata e il silenzio d’uscita. E ci sono dei disvelamenti e dei velamenti di sistema, chiamiamoli così; anche per questo, questo film è un ‘filmopera’. C’è un corpo di ballo (etereo, femminile, totalmente fragile ma smaccatamente ambiguo) che, oramai esiliatosi sulla vetta di un attico, prova e riprova una danza che non foraggia più alcuna armonia vitale. Anzi è carne, carne nuda, pro-genitura di un mondo porno dove il ‘peeping’ si è già sostituito all’happening… E, in un fotogramma di mezzo (mentre un branco di smidollati gangster hyper-arricchiti, danno vita ad uno dei più grotteschi spogliarelli nella storia del giallo filmico), cattura il nostro sguardo il seme germogliante degli anni ’80 a venire; Arnold Strong ‘Mister Universe’ occupa militarmente lo schermo con la sua emulsione muscolare, il suo sguardo da procella irridente… C’è già tutto qui; la trasformazione dell’industria cinematografica, il rapido sostanziarsi di una materia nata come ‘libertà espressiva’ (se la ‘Nuova Hollywood’ era l’epigone dello sperimentalismo degli anni sessanta, alla fine segnerà invece il rimodellamento dello star-system e il riacutizzarsi di una produzione che non agisce per analisi ma reagisce per modelli), che diverrà ben presto ‘immaginario compulsivo’ con i vari “Conan”, “Terminator”, “Yado”, “Predator”, “Danko”, et cetera et cetera… Insomma, un film bellissimo; insinuante e duro come il ritmo sincopato del tappeto musicale che lo accompagna, un maturo contenitore di arte e di vita, e – lo ripeto – un ‘filmopera’ perché dentro il percorso artistico di un grande affabbulatore del sogno americano diventato incubo, ci porta la notizia meno auspicata forse… Le divisioni cormaniane hanno alla fine sbaragliato le eroiche pattuglie di John Mekas… Lo ‘show’ (spettacolo) avrà la meglio sullo ‘show’ (visione), e quel colpo a sangue freddo che Phil Marlowe spara al petto dell’amico fuggito in Messico lo si spiega bene come ultimo gesto, solitario e sardonico, contro l’empietà della doppiezza. Viene assassinato lo spettacolo e noi vediamo il veleno della storia… “E’ tutto ok per me!”…

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