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Bastardi senza gloria

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Bastardi senza gloria

di Marcello del Campo
8 stelle

 
Un trattato sulle citazioni conterrebbe Clouzot, Riefensthal, Leone, Lubitsch, Lang... ma no!, mica si legge così il mekano-kinema, devi dargli un’aura di cinema-cinema, non stare alle apparenze, Tarantino non è mica un teorico alla Godard, ha i Weinstein al seguito, i Murdoch-Moloch del cinema... devi convincere le masse che il cinema del texano del videostore, quello che si è fatto le ossa tra le videocassette è un genio del copia e incolla, che cominciò copiando a Kubrick l’idea di spazio-tempo nel suo migliore film, che era narrative-art quel parto giovanile, che stanò Edward Bunker (insomma, un colpo di genio quel film), poi fu Pulp e va bene, battemmo le mani (Samuel Jackson, La Bibbia, Keitel uomo delle pulizie, grande musica, Statler Brothers su tutti, insomma un guazzabuglio cine-citazionista da sballo), poi fu il migliore Jackie Brown, il film-incastro perfetto, il grande cinema a portata di mano, puro Elmore Leonard che solo Quentin ha reso cinema, non Sonnnenfeld (Get Shorty)  né Madden (Killshot) né lo stesso Soderbergh (Out Of Sight), infine due esercizi di stile, i due Kill Bill, belli da vedere, magici, icono-leggendari, con quella faccia di rame di Mr Carradine kung fu style. C’era il saccheggio dei generi, elevato a finissima tessitura di cinema pret à porter, un cinema da indossare, elegante, derivativo, ma cinema. Qualcuno nicchiò vedendo Grindhouse, a me arrivarono lampi dal deserto, piedi feticcio in incipit (il feticcio ritorna in Inglorious Basterds - la scarpa e il piede perfettamente arcuato della fascinosa collaborazionista farebbero la gioia di Réstif de la Bretonne), bagliori metallici, un primo tempo bello e leccato, un secondo tempo sporco che mi piacque più del primo. Guai a toccare l’oggetto filmico Grindhouse, siamo nel cinema che si autoFAGOcita (Govanni Fago piace solo a Quentin, andate a vedere chi è Giovanni Fago... nemmeno Marco Giusti gli ha reso omaggio).
Siamo ai Gloriosi bastardi, ingloriosi basterdi, bastardi senza gloria, fate voi: il cinema di Quentin deflagra, pezzi di pellicola pullulano per l’aere come nella civiltà del consumo di immagini antonioniani; Quentin, come un bambino irrequieto, ne coglie a caso i frammenti sparsi, “Il cinema è morto”, sembra dire, “si è incendiato nelle sale del mondo, ma almeno ho fatto fuori questi sporchi nazisti!”.
Non c’è una trama? Perché, c’è una trama nel disordine del mondo?
Io sono la magia del cinema”, sembra dire, “dalle faville che salgono al cielo raccolgo il brillio e ve lo consegno come testimonianza di quello che fu il cinema, imbastisco, cucio, incollo... il mio è un cinema che nasce dal disastro...
Infine, nella calma olimpica dell’aedo (in cui il ragazzo del videostore si è trasformato), viene fuori l’unico film sensato a favore di una generazione che lo ha dissipato in inossidabili, stantie forme funebri.
È la rinascita: la svastica incisa con rabbia sulla fronte di un lercio nazista, suggella a imperitura memoria lo stigma del Male, come gli scalpi strappati raccolgono l’eredità terrificante del Giudice Holden di Meridiano di sangue di un altro grande cantore della crudeltà dell’Impero Americano, Cormac McCarthy, chiudendo il cerchio funesto dei paesi per uomini luridi.
Il mio capolavoro”, dice en abîme, Quentin Tarantino.
Entropia del grande cinema americano che chiede in prestito al grande romanzo americano, a Gravity's Rainbow: nel cazzo-missile di Slothrop, Pynchon anticipava oltre trent’anni fa la sconfitta del rinascente nazismo, scherzando sovranamente come Quentin Tarantino. Preoccupati entrambi - a ben vedere. 

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