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Ritorno a Brideshead

Regia di Julian Jarrold vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Ritorno a Brideshead

di yume
4 stelle

Un'Inghilterra terribilmente convenzionale e oleografica per trasferire nel cinema il buon romanzo di Evelyn Waugh

 

Un'Inghilterra terribilmente convenzionale e oleografica, nè più nè meno dell'Italia quando la rappresentano come “sole, pizz'e ammòre”, una recitazione ai limiti della kermesse annuale nell'oratorio dietro casa; lui, Charles, comprimario con Sebastian e lady Giulia, sembra il fratello minore (e peggio andato) di Rupert Everett, immobile nella sua fissità imbambolata per due ore e un quarto.

Tanto è servito al regista per trasferire nel cinema il buon romanzo di Evelyn Waugh, per coprire  l'arco di 10 anni della storia e per far desiderare un salutare The End che non ha l'aria di arrivare mai.

Il senso del tempo al cinema, si sa, ha connotati diversi dalla sua normale percezione nel reale, l’effetto sul pubblico è scandito dalla durata e può essere devastante se, dopo il primo quarto d’ora, si ha la sensazione che non si andrà da nessuna parte.

Si passa il resto del tempo a trovare immancabili conferme. 

Proporre rimandi a film del filone English Way of Life (Matrimonio all’inglese, ad esempio, o Another country) come qualche critico tenta di fare, sembra solo un esercizio di buon cuore.

Senza timore di esagerare, si può definirlo un centone di luoghi comuni di cui non c’era proprio bisogno, molto ruffiano nel dipingere sfondi di campagna sempreverde, interni ed esterni oxfordiani da guide serie oro del Touring, aviti manieri con tanto di galleria di copie romane di arte greca e Mantegna come se piovesse, dove la vita è scandita da regole imposte dalla matriarca (una Emma Thompson di gran mestiere ma senza guizzi particolari) talmente infarcita di bon ton, pregiudizi e  self control da sembrare la caricatura di sé stessa.

La brava donna distrugge i figli ad uno ad uno in nome del Dio cattolico a cui è devota (solo il primogenito con scriminatura uscita storta si confà al dettato materno), lo stesso Dio tenterà un’incursione in extremis al capezzale del patriarca non credente venendone clamorosamente respinto; il prete, che sembrava aspettare dietro la porta, arriva giulivo come andasse ad un pranzo di nozze e se ne va senza niente di fatto sparando battute all’inglese; psicodrammi molto inglesi sono indotti da regolare non accettazione della propria omosessualità ( piuttosto, meglio andarsene in Marocco a lavar piatti e finire di distruggersi); alcoolismo molto inglese (si comincia al college con lo cherry) da educazione repressiva, matrimonio combinato all’inglese ed emarginazione sociale dell’amante bello espiantato, senza lignaggio ma, soprattutto, ateo; finale della serie “ e nessuno visse felice e contento”, confezionato apposta per fugare qualsiasi sospetto del genere “ma la vita è molto meno di questo!”.

No, deve sembrare tutto normale, e allora dosi massicce di dolore, sguardi disperati, una scena di sesso che non guasta, non manca niente.

Mancava solo la guerra, e quando sembra che tutto sia finito e possiamo andarcene, ecco spunta anche lei (c’era anche all’inizio, in effetti, ma nel frattempo ce ne siamo proprio dimenticati, tutti presi dal vortice dell’intreccio).

L’eroe (sempre Charles) ha combattuto ed è solo “come mai pensava di poter essere”, propina un’ultima serie di pensierini della notte al commilitone e sparisce pian piano, in controluce e dissolvenza.

Un suadente pianoforte commenta instancabile per tutto il tempo. 

 

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