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Il passato è una terra straniera

Regia di Daniele Vicari vedi scheda film

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La recensione su Il passato è una terra straniera

di scapigliato
8 stelle

Una Bari notturna, quindi torbida per definizione, quando appunto lontani dalla luce del sole ci lasciamo andare a scelte e ad istinti che spesso non ci appartengono, è lo sfondo della vicenda dantesca che porta il personaggio di Elio Germano dall’altra parte dell’Acheronte. Dramma da camera dallo stile orrorifico e dai toni del perturbante, diventa un on the road luciferino dove la ferocia e l’aggressività diventano i codici dell’unico linguaggio oggi possibile. In un mondo di apparenze, di carriere ad ogni costo, di lussi e privilegi che arrivano con uno schiocco di dita, “Il Passato” di Vicari è l’italiano che si guarda allo specchio e si fa schifo. Fratello ideale, di segno nero, del film di Paolo Virzì “Tutta la Vita Davanti” (sempre con Germano), il film di Daniele Vicari, tratto dal romanzo di Carofiglio (che non ho letto), prende di peso gli interpreti cretini del call-center virziano, li fa diventare dei laurenandi in legge o dei lesti furboni, e li sbatte con una violenza viscerale all’interno di quella notte amara che è l’oscurità del senso. Fare i soldi e in fretta, avere la bella macchina e le belle fighe solo perchè così sei qualcuno, sono i tratti salienti dell’italiano instupidito, quello dei giochi televisivi e dei berlusconismi, quello dei capi firmati e delle lampade abbronzanti. La percezione del reale passa attraverso l’esperienza sensibile, ma quando questa è viziata dall’arroganza di appartenere ad una casta inesistente creata ad hoc per giustificare le proprie bassezze e legittimare i propri crimini, privati come pubblici, allora anche la percezione smette di essere tale e diventa solo deformazione. Non esiste più il “contadino”, bensì “l’imprenditore agricolo”: una delle tante deformazioni eufemistiche del buonismo filoaziendale che stanno uccidendo questo paese. Siamo ormai alla deriva totale dello stimolo culturale. L’italiano medio è furbo e criminaloide. Non c’è più un’etica che distingua l’umanamente giusto dall’umanamente sbagliato, ma esiste solo il giudizio insindacabile del profitto, della rendita, e peggio ancora della difesa del proprio interesse. E gli altri? Quelli che non arrivano a fine mese e nemmeno per colpa loro? E quelli che vorrebbero curarsi ed istruirsi ma l’incubo della privatizzazione non glielo permetterà? E quelli che venderebbero la madre pur di guadagnarci qualcosa, o che la ucciderebbero per poi raccontarlo in uno dei tanti squallidi salottini televisivi? Il Giorgio di Elio Germano, grande, immenso, gigantesco, con quella sua camminata bàrbara e ciondolante, con quelle espressioni dure e animalesche da grande maschera italiana, è il sommo poeta che scende gli inferi, si trascura dell’etica che lo spingeva fino poco prima, e si dedica a sovvertire reazionario la visione del mondo e la percezione del suo personale tessuto sociale. I soldi e l’estasi della vittoria, della manipolazione, del dominio e dell’inglobazione assoluta e intoccabile, lo portano a piombare sul fondo del miserevole e a gustare come un avvoltoio rinsecchito anche le carogne più secche che il dio malato gli offre. A traghettarlo, un Caronte impressionantemente efficace, di una bellezza laida eccitante e dal taglio mefistofelico che risponde al nome di Michele Riondino. Persuavivo sì, ma per nulla conciliante. Germano accetta, Riondino poi toglie la mano. I due si dichiarano amici, ma anche l’amicizia è ora regolata da rapporti di forza. Chi piscia più lontano vince. Sintesi della vita politica e culturale dell’Italia da cartolina abissina.
Il regista sa così mettere con efficacia tutti gli elementi in scena, li inserisce all’interno di una grammatica puntuale, con la mdp dalle posizioni antinaturaliste o iperrealiste, per dare alla vicenda lo statuto di un’esperienza davvero sensibile. La direzione degli attori è stupenda. Grandi caratteri liberi di essere il proprio corpo con rabbia e con impeto ribelle, ma anche manovrati come sagome di un diorama cinico e spietato in cui la messa in scena e il suo successivo risultato filmico sono la forma e il contenuto di un racconto urbano dall’anima intimista. Unico difetto: pochi primi piani, ma è un difetto generale del cinema di casa nostra. Elio Germano comunque si muove come un gigante nel territorio mai noioso del borderline che tanto gli piace (o così ci ha fatto sempre credere), mentre Riondino piace e spaventa con la facilità di una bellezza diversa, di quelle che non ti aspetti, e Chiara Caselli mai vista così in forma è la dark lady perfetta che s’inserisce nella dinamica deflagratrice dell’equilibrio dei due attori protagonisti. Vicari fa quindi un lavoro pregevole con cui ricrea il modellino del trenino ormai rotto, ma con cui ci si ostina a giocare. Giorgio e Francesco sono due trenini (inter)rotti, pervasi da turbe sociali e sessuali che li portano a discendere senza freni la linea di separazione tra il reale percepibile e quello immaginabile. Sognano di essere potenti imperatori, ma rovinano a terra irrimediabilmente quando l’istintualità li riporta inesorabile alla cruda realtà, quella che il giovane popolo italiano ha dimenticato da un quindicennio.
Scene di una sessualità violenta e cagnesca sono i paradigmi dell’irrisolto psicologico che scatena, in ultima analisi, le peggiori azioni dei personaggi. Anche il colto Germano, laureando addirittura in giurisprudenza, si fa beffe della giustizia ed opera l’istintualità animale come un’arma sociale di soppressione, invece che declinarla nella sua accezione positiva di Verità e Genuinità. Il sesso resta così la grande castrazione della società cattolica, la cui repressione diventa stimolo a reprimere, e la cui negazione diventa stimolo ad imporre la violenza del sesso come un nuovo linguaggio classista/sessista. I duri colpi di bacino con cui Germano penetra dentro al corpo consumato di Chiara Caselli sono li stessi con cui pesta l’avvocato creditore, e lo stupro isterico in terra di Spagna è la stessa isteria che lo porta ad autodistruggersi fino alla clamorosa scoperta finale che anche lui stesso è un colpevole. Il sesso quindi torna al centro del dibattito sociale come primo ed unico interlocutore delle patologie maniaco-depressive che muovono i fili dell’italiano oggi, fagocitatore professionista, furbastro incallito che non distingue coscientemente giustizia ed ingiustizia, ma difende il proprio interesse a scapito della povera gente, a scapito di una primitiva consapevolezza etica (non morale, attenzione!). La regia aiuta tutto questo senza concedere un solo sprazzo di luce calda e accomodante, senza rompere il ritmo della discesa infernale, ma intensificandola sempre di più. Anche Barcellona perde lo smalto delle gite goliardiche del cinema italiano, e diventa l’asettico salottino fashion in cui la turba si concretizza ed esplode. Il grande lavoro di Vicari manca però della morbosità omoerotica che poteva esserci tra i due protagonisti. Un’ambiguità lievemente trattata durante la scena dello stupro spagnolo quando Riondino accenna a masturbarsi mentre l’amico Germano violenta la povera ragazza precedentemente pestata a sangue. Questo nuovo affondo avrebbe inspessito le letture pscicosessuali, confermando ulteriormente la povertà culturale e la tara emancipatrice del popolo italiano che, se in Virzì era un allegro ostaggio delle demenze deformanti del berlusconismo (successo e carriera a tutti i costi: io sono perchè possiedo), in Vicari è uno zombie fagocitatore, insaziabele ed autodistruttivo che ha fatto dell’arrivismo incosciente una vera e propria politica.
Da notare anche che finalmente le forze dell’ordine appaiono per quelle che sono: poliziotti che menano e poi chiedono scusa. Tanto chi li tocca? E nemmeno il fatto che Germano si creda davvero colpevole (anche se solo per l’unico crimine sessuale che ha commesso in Spagna), aiuta a tollerare e ad accettare l’operato dei militari ancora e incomprensibilmente appoggiato dalle istituzioni italiane. Inutile dirvi che, pur Riondino meritando molto, il film “è” Elio Germano. Provate a vedere il film fissando gli occhi solo sul volto dell’attore molisano, comprenderete benissimo perchè Elio Germano è il più grande attore italiano vivente.

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