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La classe - Entre les murs

Regia di Laurent Cantet vedi scheda film

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La recensione su La classe - Entre les murs

di EightAndHalf
10 stelle

Ed eccoci di fronte all’umanità, brutalmente reale, in cui dubbiose pulsioni vitali cercano di far fronte alla tortura più attanagliante: l’arbitrarietà. Gli insegnanti ricercando regole, gli studenti ricercando dei riferimenti che li motivino, tutta l’umanità si ritrova compressa com’è compressa dalle mura della scuola, rimane inerte, (soprav)vive senza sapere dove andare, qual è l’obbiettivo delle sue azioni. Per raccontare queste verità, quale soggetto migliore se non il corso di un anno scolastico, l’eliminazione della trama e il grado 0 della finzione cinematografica a favore di una delle massime espressioni della complessità del vivere, prendendo a riferimento due dimensioni, adulti e adolescenti, in cui ogni barriera generazionale è finalmente spezzata, e a dividere sembra essere soltanto la differenza e la natura multietnica della scolaresca? Non è un semplice inno alla tolleranza, il capolavoro di Laurent Cantet, non è un semplice eliminare tutte le differenze, ma è piuttosto ritrarre noi nel confronto, nei rapporti sociali, nella vita del quotidiano, ad affrontare piccoli drammi che in quel momento ci appaiono grandi, come qui ci appaiono grandi e severi i rimproveri dell’insegnante, a ricordarci quanto siamo perduti. Non dobbiamo considerare “Entre les murs” una sorta di documentario sul destino delle prossime generazioni, o su come stia cercando di sopravvivere un organo sociale dato fin troppo per scontato, ma va considerato come un nuovo ed innovativo studio sulla realtà, uno sconcertante spaccato del reale, dove ponendo dei compromessi con gli eventi Cantet riesce a far riferimento alla realtà di tutti i giorni non solo dei 25 ragazzi protagonisti del 20° arrondissement, la ripresissima banlieu parigina, ma di tutti gli abitanti di questa terra, anche chi è più avanti a livello scolastico, o anche chi a scuola non c’è più, attraverso i continui riferimenti all’esterno. È la natura dubbiosa della difficile adolescenza ad aver portato Cantet a riscontrare nella scuola quella confusione e quella mancanza di oggettive finalità da rappresentarne l’esistere sociale dell’essere umano. Neanche i Dardenne, nel loro stile iperrealistico, non erano riusciti a spolpare così la realtà, frenati dalla voglia artistica di raccontare (sebbene in maniera antispettacolare) una “storia”, perché qui la storia è assente, o anzi è assolutamente presente, intessuta nello sguardo quotidiano di un professore che vede via via scivolare ogni certezza e ogni possibilità di riscatto, ma che riesce, come riusciamo noi quotidianamente, a riprendere una vita senza pensieri.  Eppure si distingue dagli altri insegnanti perché è l’unico a non prendere sul serio la scuola, e a non lasciarsi visibilmente scoraggiare da ragazzi provocatori e divertiti, che non vedono alternative se non scivolare nel nichilismo della loro condizione di vita, sia chi è povero e ha una famiglia straniera, sia chi ha la possibilità di continuare gli studi.

Questo approccio nei confronti della realtà va individuato in uno dei tanti consigli in cui gli insegnanti si raggruppano nelle ore pomeridiane e decidono del destino dell’educazione e della disciplina. La tendenza, accusa uno dei genitori rappresentanti, di questo istituto è sanzionare piuttosto che valorizzare. Un’idea, dice il preside, sarebbe stabilire una patente per ogni singolo studente, una patente a punti in cui togliere, appunto, i punti, in caso si voglia punire qualcuno. Ma è tutto relativo, dice un insegnante, e così lo studente può compiere un atto grave perdendo soltanto pochi punti. Esiste un’azione che faccia perdere tutti i punti? Il protagonista, insegnante di lettere spesso preso alla sprovvista e mai realmente pronto, in classe, a rispondere all’infinità quantità di domande che una classe di curiosi adolescenti gli pone, ritiene che la punizione debba avvenire in funzione di uno studio approfondito sui precedenti dello scolaro e sulla situazione in particolare. L’altro insegnante replica però che ci vogliono delle regole fisse, altrimenti saremmo nel regno dell’arbitrarietà. Non ha bisogno di metafore, Cantet ci ha gettati in una giostra impazzita in cui la telecamere segue furtiva sguardi e gesti, studia il fenomeno dell’apprendimento sottolineando la sua agghiacciante ingenuità, studia la ricerca dell’essere umano enfatizzandone il triste fallimento. Ma come gestire tutto se, nello stesso momento, arriva la tragica notizia dell’arresto della madre di uno studente e arriva l’annuncio della maternità di un’insegnante? I sentimenti più contrastanti cozzano ai nostri occhi di spettatori, di fronte a questo cinema verità, ma non si scontrano nella realtà del film, come avviene a noi tutti i giorni. Mai il cinema ha spaziato così senza uscire da un edificio, mai ha coinvolto così tanto senza dire o aggiungere niente, ma ponendoci di fronte a noi stessi, dei nostri alter ego disperati che a volte sbraitano, a volte si arrabbiano, a volte si offendono, a volte si lasciano provocare, a volte insultano e a volte vogliono nascondere le proprie debolezze. Tutta la variabilità del sentimento umano in una qualunque associazione sociale di individui, e le differenze etniche sono azzerate a favore di differenze di altra natura, di natura comportamentale, tra secchioni e lavativi, monelli e indisciplinati, malcapitati e “sgallettate”.  E i genitori, com’è prevedibile, non sono da meno, e insieme agli insegnanti lasciano l’idea di un’umanità confusa, che si illude ancora di poter razionalizzare una realtà caotica che non risponde né al puro istinto di massa né, certo, a un più intelligibile tipo di sentimento. Il caos. Una realtà che viene setacciata in lungo e in largo con una mdp velocissima, priva del ritegno di maggior parte del cinema anche del presente, ma che non cerca né facili shock (vedi il recente “Detachment”) né la via della commedia o della pietà (“La scuola” di Luchetti), ma, dopotutto, vive.

Il rapporto fra la realtà cinematografica e la nostra realtà, così stretto da far scomparire qualsiasi confine, è ribadito nella parte del film in cui si deve raccontare l’incidente che lo studente Souleymane causa ai danni di Khoumba, in occasione di una lite con il professore. Dopo che il professore ha dato delle “sgallettate” a due studentesse, Souleymane, trovando la giusta occasione per mettersi contro il prof. Marin, cerca di difenderle, e la reazione è un piccolo dramma in cui ogni dettaglio può apparire importante, e dev’essere riposto in un rapporto che poi nel consiglio disciplinare verrà riletto. Così gli insegnanti non presenti all’evento non sanno che pesci pigliare, se stare dalla parte di un insegnante che ha fatto del suo meglio per mantenere calma una classe, ma che è posto di fronte alla frustrazione del proprio fallimento, o dalla parte di studenti o violenti o rabbiosi, di dubbia posizione. Ma noi sappiamo chi potrebbe considerarsi il più maturo della situazione, sappiamo come comportarci, perché nello stesso tempo l’arte cinematografica, mai meno sperimentale, ci dà un quadro d’insieme che effettivamente ci fa venire il dubbio se questo film sia davvero reale. Ma lo è, e raggiunge simile obbiettivo stando attento a dettagli che nella vita noi non consideriamo, che passano inosservati ma sono pieni di realtà. E l’arte non se li reinventa, ma li sa cogliere nel profondo.

D’altra parte nemmeno gli studenti si ritengono maturi, lo ammettono loro stessi, ma cercano di affrontare una realtà che loro considerano ostile, ma che lo è per altri motivi. Gli studenti sono limitati da un linguaggio ristretto, uno slang tutto periferia francese che non riesce ad esprimersi, e si ritorce sugli stessi studenti. Compito dell’insegnante smontare tanti futili castelli di carta e ricostruirli in cemento, senza che però ci sia un terreno adatto e buone fondamenta. E mentre i litigi sembrano gli stessi che noi possiamo avere ogni giorno con gente che conosciamo, e di cui Cantet ripropone la vera realtà, restiamo annichiliti di fronte a un film premiato a Cannes ma passato in sordina in Italia, e che nonostante sembri così casuale offre sempre nuovi stimoli a una nuova visione. Quello che rimane è la voglia di non dare per scontato nulla, come la gente della “Repubblica” di Platone sottoposta alle domande di Socrate, ma la cui maieutica, il processo per arrivare all’idea razionale, sembra oggi non essere più possibile.

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