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Synecdoche, New York

Regia di Charlie Kaufman vedi scheda film

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La recensione su Synecdoche, New York

di EightAndHalf
8 stelle

Uno spettacolo è la parte di un’intera vita, ma quell’intera città ricreata e posta sotto la lente di ingrandimento di una gigantesca serra-arena pronta ad essere riempita, quella è il tutto per la parte, è la città intera per un singolo dramma. La riproposizione della sintesi della reinterpretazione del riassunto dell’accorgimento della rivisitazione. Un immenso labirinto: e già da qui è evidente come Synecdoche non sia ancora andato oltre il Postmoderno. Il bislacco, lo strampalato, l’elemento straniante-espressionistico, tutto quanto ripescato a piene mani dalla selva del Novecento, senza requie e senza un attimo di stasi.

 

L’irruenza del gesto filmico di Charlie Kaufman tenta di giustificarsi con l’evoluzione in itinere dell’esistenza (e delle caratteristiche) del protagonista splendidamente interpretato da Philip Seymour Hoffman, e trascende la sua natura cervellotica e la frantuma  mettendola in scena, rendendola protagonista, impiantandola nel gesto artistico del personaggio principale, regista dalla vita ordinaria e “incomunicante” (un inetto ma anche un autore) che cerca di rielaborare il lutto non mortuario della perdita della moglie, non morta, ma scappata insieme alla figlia in Europa dove lei possa vivere finalmente libera dal marito e ripartire da zero, ricominciare da capo. Secondo una spinta che Caden, il protagonista, fa fatica a comprendere, e per un motivo ben preciso che ci sarà rivelato. Da qui ha inizio il percorso artistico/metapsichico di Caden, interessato a capire e a capirsi, per cogliere l’essenza di se stesso. Quale possibilità migliore, dunque, se non sfruttare la sua stessa arte e (far) ricostruire sulla rappresentazione (e nel film) l’idea pirandelliana dell’arte che prende vita e assume autonomia rispetto al reale, raccontando questo reale e rivisitandolo nella sua dimensione più veritiera. Quale occasione migliore per rompere l’incomunicabilità che ci fa (e già ci faceva un secolo fa) distanti dagli altri, tanto da parlarci addosso senza mai capire quando la catarsi tanto attesa arriverà (estendiamo, metafisicamente, Waiting for Godot). Quale metodo migliore se non riproporre meta-artisticamente il teatro nel cinema, il finto nel finto, sperando che due negazioni possano finalmente portare ad una affermazione. Dunque penetriamo in Synecdoche, affrontando in maniera altamente discontinua il suo labirinto.

 

Tra le svariate attività con cui Caden si osserva dall’esterno: l’arte, gli specchi, la psicanalisi, i dottori, il teatro. Unico spassionato obbiettivo: potersi conoscere. E per potersi conoscere, lui non può che comprendere come sia parte del tutto, e sia soltanto un frammento, in grado però, almeno in un primo momento, di riproporre “tutto”. Ricostruiamo dunque un’intera esistenza, mentre essa va avanti: costruiamola in itinere, perché non sappiamo ancora cosa accadrà. Scelte morali, estetiche e religiose ancora non sono state prese (anche se Kierkegaard ne ha parlato già da un pezzo), e dunque ogni esperienza è il punto di partenza per una prova non destinata ad un pubblico, o forse non ancora, fin troppo invischiata nei dubbi perplessi di una mente esagitata. L’amore per la moglie non corrisposto, l’affetto per una figlia che diventa grande e irriconoscibile, l’affetto per un’attrice e per la figlia di cui non si ricorda nemmeno il nome, l’enorme affetto per Hazel/Samatha Morton, vispa e preparata per una prova davvero impegnativa. E infine l’enorme voglia di essere sicuro di se stesso, e di portare avanti un’opera mastodontica in cui si vuole mettere in scena niente poco di meno che la verità più pura e assoluta. Dunque la messa in scena di un palco gigantesco in cui però non si può esimere dal mettere dentro le esistenze più svariate, e anche la sua, riveduta e corretta da un attore misterioso che lo ha sempre seguito negli ultimi vent’anni e che adesso può finalmente dimostrarlo. Guardarsi dall’esterno, e forse poter capire. Ma non vediamo oltre la punta del nostro naso.

 

Perché vediamo solo il nostro piccolo cerchio, una forma vuota da caricare di spunti e personaggi. Non vediamo altro se non il nostro minimo problema, il nostro microcosmo significante e privo di significato. Non vediamo il dramma degli altri: non importa quanto siamo sensibili, unici, geniali. Non si possono capire gli altri. Che siano i residui dell’Età dell’Ansia? La famosa incomunicabilità che tanto ha interessato (e sfiancato) migliaia di autori novecenteschi messi sulle loro leaning towers? Che forse si possa andare oltre il proprio orticello? Oltre la propria personalissima coscienza del tempo (Bergsòn ha già detto tutto)? Scoprire l’esistenza di una donna delle pulizie, che ha i suoi drammi come ce li hanno tutti gli altri dietro ciascuna delle finestre di ciascuno dei palazzoni della città per eccellenza, New York, nel film oltretutto appena intravista?

 

Si capisce solo alla fine che si voleva provare a mettere insieme il mondo delle particolarissime implosioni non ancora definite dalla morte di tutta l’infinita schiera di esseri umani tutti giustamente ricchi di problemi e di rancori. Di ricordi che se si trasfigurassero e diventassero, per ciascuno, quello che Caden crea per sé, provocherebbero allora la frammentazione non solo della realtà, ma anche della fantasia, un’Apocalisse dell’immaginazione. Non più la totalità, ma singole esistenze “gettate nel mondo” e angosciate da quello che le aspetta. Esistenze che “creano” artisticamente senza definire all’infinito il finito senso di un’esistenza particolare (l’operazione dell’opera d’arte, “uccidere” la realtà per renderla più o meno ponderabile, quantomeno esperibile), ma “ricreando” la propria vita senza però averla finita. Da qui l’opera d’arte diventa deforme, discontinua, straniante. E il risultato non può essere altro che perdersi nel labirinto; non si possono più controllare le infinite esistenze degli esseri umani, tutti incapaci di comprendere e comprendersi (perché le feci cambiano colore?, perché la mia casa cresce sul fuoco?, non c’è neanche più da chiederselo), si può solo uscire dalla serra-arena per ritrovarsi in un’altra arena sempre più grande, sempre più grossa, che sostituisce il cielo e contiene l’intero mondo. Rigettare definitivamente la realtà, e rendere impossibile la dimostrazione di simile significato: così come con Joyce, Synecdoche diventa “difficile” perché carica su di sé la difficoltà della “comunicazione” umana, senza riuscire a risolverla. Dimostrando forse che esiste chi come Caden carica su di sé la sofferenza umana, frammentata nelle particolarità, ma mostrando anche come questi stessi “artisti” o “registi” finiscano poi per fallire, per riconoscere infine – quasi catarticamente - la sofferenza come passepartout universale.

 

Il solo vero difetto di Synecdoche è che è ancora bloccato a prima dell’anno 2000.

Ma il suo unico vero pregio è che dopo essere usciti dalla sala, la sensazione è davvero di stare dentro una gigantesca serra-arena, rigettati nei nostri dilemmi esistenziali più brucianti.

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