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Revolutionary Road

Regia di Sam Mendes vedi scheda film

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La recensione su Revolutionary Road

di MarioC
8 stelle

Lunga e tortuosa, quando non inaccessibile, è la strada che porta alla rivoluzione, a meno che questa non sia semplice attributo toponomastico. Anche perché non necessariamente la rivoluzione passa per destituzione di sovrani e dittatori, sangue versato e teste tagliate: la rivoluzione può assumere aspetti di piccolo bradisismo domestico, schiudersi nella crisalide di un modesto sogno di fuga, reso impossibile dalle abitudini, dalle convenienze, dalla inquietudine che scava silenziosa. Sam Mendes prosegue nel suo ineffabile sguardo panottico sulla coppia e sulle declinazioni di un agio artefatto che può trasformarsi in noia, rancore, quindi odio ed indifferenza; e lo fa senza risparmiarci nulla: scene madri urlate il necessario, benchè raffreddate dallo straordinario talento di due attori perfetti (anche essi, dal capostipite Titanic, sorta di coppia di fatto del cinema americano), colpi bassi ed agnizioni intellettuali affidati alla figura del mattacchione che tutto sa perché tutto vede tra i fumi di una presunta insipienza (un impagabile Michael Shannon), le regole del buon vicinato ed i suoi codici non detti di invidie, desideri, frustrazioni, inevitabile confronto, infine espiazione di quelle colpe che appaiono come connaturate allo svolgimento rettilineo di un matrimonio (qualcosa ci avevano detto anche Altman, Allen ed altri ancora, ma Mendes spinge l’angolo di visuale fino a coprire ogni singolo spazio di disperazione).

 

 

Se in American Beauty il regista sacrificava il suo protagonista al ludibrio di una percezione di sé in sfacelo progressivo, in Revolutionary Road Mendes scopre presto le carte: quello che sembrava l’amore puro della giovinezza, l’incastro perfetto di corpi ed anime reca in sé i germi di ogni possibile bruttura (etica, morale, sociale) per rivelarsi soltanto una finzione da cui è impossibile, ancorchè inutile, scappare. Quello che a molti è parso un difetto (l’ergersi di Mendes a demiurgo e deus ex machina, il prendere le distanze dall’alto di un empireo di inattaccabile superiorità morale, l’esporre questi mostri – non soltanto i protagonisti, si guardi al personaggio, realmente odioso, interpretato da Kathy Bates – allo zoo delle bassezze, senza alcuna riconoscibile impronta o postilla morale) è in realtà il grande pregio dell’opera e la sua non comune grandezza. Il regista guarda, scruta e scava, senza necessariamente sillabare o suggerire giudizi di merito o valore: se pure, a tratti, l’opera pare sbilanciata a favore della sensibilità e del coraggio femminile (mirabilmente incarnati da una meravigliosa Kate Winslet), a fronte dell’altrettanto proverbiale mancanza di coraggio maschile (l’espressione da perenne bamboccione di un pur grande DiCaprio è perfetta per indicare l’andamento lento e, soprattutto, abitudinario del testosterone), ecco che arriva la scena di un tradimento-lampo, brutto, meschino, inutile, anche sporco quanto può esserlo un gesto scioccamente autopunitivo, a rimettere le cose a posto e ad indurci a considerare la coppia come indissolubilmente unita, sì, ma nella mediocrità.

 

 

Il tutto è shakerato in una confezione che emoziona e moltiplica il livello di partecipazione. La presunta freddezza di Mendes si traduce in una considerevole capacità di creare empatia, la ricostruzione, in particolare ambientale, è al solito impeccabile (gli ambienti lavorativi fumosi e soffocanti, il verde delle villette a schiera, la cucina quale infido regno della casalinga, pericolosamente incline a trasformarsi in gabbia senza uscita), la musica (prova fantastica di Thomas Newman) contrappunta le angosce, provando inutilmente a creare bolle d’aria e vie d’uscita dagli echi boschivi e campestri all’asfissia di quel rapporto. Il dramma finale pare l’ennesima dimostrazione della programmaticità dell’assunto mendesiano: la deriva anticipata dalle nevrosi, e un po’ troppo da romanzo d’appendice, della malattia senza ritorno di un menage sbagliato. Ed è, invece, un tocco di estrema delicatezza, una sorta di ulteriore endorsement alla lucidità della follia che, come già visto nel personaggio di Shannon, è l’unica condizione umana in grado di oltrepassare il guado delle apparenze per approdare al placido sonno dell’annullamento, alla atarassia, alla assenza di dolore, o della sua percezione. Per non apparire esagitati ultras del regista americano, diciamo pure che lo stesso effetto il film non avrebbe potuto sortirlo con interpreti diversi: ribadito di DiCaprio, della sua espressione sempre in bilico tra angelica furbizia e luciferina tranquillità, Revolutionary Road è Kate Winslet, i suoi sguardi perennemente velati da angoscia o inaudite esplosioni di gioia. Un’attrice da innamoramento subitaneo (complicazioni da matrimonio escluse, of course).

 

 

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