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Gomorra

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Gomorra

di giancarlo visitilli
8 stelle

Il lifting, il manicure, l’abbronzatura. Tutto deve concorrere alla bellezza e al fascino del peccato, nella città di Gomorra. La morte e il solarium. E poi l’investitura. Come nel feudalesimo, i rapporti sono vassallatici: chi si pone alle osservanze degli uomini d’onore, riceve in cambio rispetto e protezione.
Immenso il dolore che lascia il film di Matteo Garrone. Solitamente, chi ha letto un romanzo dal quale si è tratto un film, quest’ultimo risulta sempre meno interessante rispetto alla storia scritta. Qui accade il contrario, pur essendo grande stimatore di un giornalista come Saviano. Forse perché il regista in questione, non è un regista italiano come tanti in giro. Di lui abbiamo da subito apprezzato la stralunatezza degli sguardi (L’imbalsamatore) e l’acerrima diatriba tra chi guarda e chi è guardato, che quasi si scarnifica allo sguardo altrui (Primo amore). Gomorra rincara la dose. E questa volta raggiunge lo stomaco, riuscendo a farsi complementare al romanzo, ovvero tradendolo con fedeltà.
Si racconta della Gomorra contemporanea, attraverso cinque vicende esemplari, il regno della camorra, nella provincia di Caserta, fra Aversa e Casal di Principe. La ‘politica’ di Garrone è minimalista, come dimostra l’essenzialità dello stesso manifesto del film: nessun oggetto, volto, colore. L’immediatezza del nero, per indicare la disperazione, lo sgomento, la cecità, il precipitare nel totale nulla. L’Italia è in quel nero e non se ne riconoscono i confini. Le cinque vicende, separate, sono accomunate dallo svolgersi dei fatti, tutti nel quartiere napoletano di Scampia, integralmente controllato dalla camorra. Due adolescenti che si arruolano il diritto dovere di fare giustizia a loro modo, alla maniera dei boss, ma senza rendere conto a loro. Un porta-soldi della camorra che si imbatte nella lotta intestina tra la cosca dominante e il clan degli scissionisti. Il sarto di un’azienda di abbigliamento controllata dalla camorra, rischia la propria vita, lavorando clandestinamente anche per un gruppo di cinesi. C’è anche l’attualissimo imprenditore degli smaltimenti di rifiuti tossici, che lavora con metodi totalmente illegali, avvelenando la stessa terra in cui vive. E poi quello che maggiormente fa male: l’adolescente che inizia la sua scalata all’interno della camorra.
Gomorra è il lavoro più maturo di Garrone. Forse il suo capolavoro. L’avverbio è scrupoloso, perché il film merita almeno un paio di visioni. Per ora appare chiaro il lavoro di un regista che ha saputo strutturare nel tempo il suo mondo espressivo, che parte soltanto da Rosi e passa da Petri, ma giungendo, alla fine, ad approdi assolutamente personali ed originali. Perché, a differenza di quelli, Garrone è maggiormente maieutico. Qualità assenti fra i cineasti italiani. L’unicità di Garrone è soprattutto nel suo sguardo: le sue inquadrature sono uniche (lui stesso è l’operatore di macchina) per l’instabilità di come tutto appare. Ma nulla è come sembra, direbbe Battiato, per cui ogni sequenza di Garrone è priva di speranza, dunque vera ed atroce. Basti pensare alle sequenze con cui si apre e si chiude il film: la claustrofobia di una macchina al neon blu e due giovani vite (s)trattonate al di là del mare. Due sentenze di morte, sopra le quali si eleva il dio, onnipresente, dell’AntiStato.
Garrone, come sempre, si avvale di un cast eccezionale, sul quale è difficile esprimere qualsiasi giudizio: risulterebbe riduttivo. Come sia riuscito a cercare quei volti di adolescenti, così scavati, con i loro corpi così segnati, non è difficile pensarlo, essendo in buona compagnia di uno scrittore come Saviano, che di quei volti ha conosciuti “vita morte e miracoli”. A ciò si aggiunga l’altrettanto stupenda fotografia di Onorato, capace sempre di naturalizzare, sgranando l’immagine e conferendole un’esasperante resa di realismo. Niente suoni artificiali, ma quelli del vissuto inquietante, per cui anche i neomelodici qui sono privati della loro melodia.
Immensa la sequenza dei due adolescenti, in mutande e Nike, che con kalashnikov e mitragliette, si fanno eredi di un cinema che conta. Anche se i Quattrocento colpi (quelli delle armi) in Gomorra sono, di gran lunga, superati. In comune, però, il mare: quello di Truffaut come via di fuga oltre l’immaginario, ma quello di Garrone inteso come tempio di morte.
Giancarlo Visitilli

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