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Viva la muerte

Regia di Fernando Arrabal vedi scheda film

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La recensione su Viva la muerte

di spopola
8 stelle

"Viva la muerte" lo vidi a Parigi agli inizi degli anni '70: un evento atteso e trascinate, che creò fortissime tensioni emotive, ed entusiasmi travolgenti non tutti (purtroppo) riconfermati dalla revisione adesso possibile grazie al DVD editato un paio d'anni fa da Raro video, che ci restituisce l'opera in versione integrale. Film “maledetto”, scandaloso, cruento, maltrattato, bloccato dalla censura, tenuto in un cassetto per oltre un anno e poi fortunatamente, per fortuite coincidenze, “liberato” senza tagli e restituito integro al mercato che lo attendeva con ansia (quelli erano anni "duri" e con la censura si scherzava davvero poco). “VIVA LA MUERTE” è l'opera prima (e anche la migliore) di un personaggio a quei tempi molto famoso (persino alla moda direi), Fernando Arrabal, esuberante e “impegnato” poeta spagnolo da tempo esiliato in Francia. Iconoclasta e sconcertante scrittore, utilizzava la causticità della sua prosa per avversare e combattere il franchismo (un autore davvero molto frequentato dall’avanguardia dell’epoca soprattutto per i suoi inconsueti e spesso ermetici testi teatrali che il tempo avrebbe poi notevolmente ridimensionato, ma che fornivano fortissimi stimoli “creativi” e avevano… il pregio non secondario di poter utilizzare un ridottissimo numero di attori, come per esempio i due atti unici “Pic-Nic” e “I due carnefici” che anche la nostra compagnia aveva presuntuosamente presentato in lettura scenica proprio la stagione precedente, resi disponibili in Italia dalla illuminata collana teatrale editata da Lerici). Come potevo mancare allora a questo fondamentale appuntamento visto che a Parigi quello era proprio lo "strombazzato avvenimento della settimana?" Fu necessario sobbarcarsi qualche ora di coda per accedere alla sala, vista la ressa, ma il sacrificio coronato dal successo valse davvero la candela (o almeno il ricordo mi rimanda questa emozione affascinante e insolita). Trascinante fino dai titoli di testa disegnati da Topor, orridi e surreali come i supplizi di Bosch che rappresentavano figure allegramente amputate, squartate, crocifisse o divorate , tipiche della poetica di questo autore , accompagnati dalle infantili, cantilenanti note di una acidula filastrocca: Ekkoleg , di G. Agatz. Film per quei tempi sconvolgente e affascinante, dunque, con moltissime connotazioni autobiografiche, che traeva origine e spunto da un precedente romanzo (“Baal Babylone”) dello stesso Arrabal. Visionario e surrealista come pochi altri (ebbe il plauso incondizionato di Bunuel che di queste cose se ne intendeva), sporco, cattivo, attraversato da immagini crude e terribili difficilmente sostenibili, risultava davvero all’epoca una esperienza inconsueta ed esaltante (paragonabile forse solo alle provocazioni Jodorowoskyane). Avanguardia assoluta nelle riprese (siamo nel 1970) con l’utilizzo in moltissime parti della videocamera, allora un mezzo rudimentale: immagini sovraesposte, distorte, manipolate e ritoccate che conferivano un fascino decisamente inconsueto. Un anticipatore geniale insomma di un “modo” personalissimo di fare cinema – molto vicino alla videoarte - quando ancora i mezzi tecnici non erano adeguati, risolto in modo fortemente inventivo e coinvolgente. Nessuna distinzione fra reale e inconscio nei due piani della vicenda dalla fortissima carica eversiva che racconta la storia del giovane Fando (il protagonista nel quale si riflette lo stesso Arrabal, ma dove anche io riuscivo a ritrovare una viscerale e privata identificazione con molte delle situazioni illustrate) ossessionato dalla perdita del padre tragicamente sottrattogli sotto i suoi giovani occhi, schiacciato fra la sensualità e la morbosità quasi incestuosa della madre (a volte ambiguamente intrigante, altre raffigurata come una madonna) e afflitto da insostenibili sensi di colpa con feroci autopunizioni corporali dettate da un radicato integralismo cattolico che non lascia scampo né speranza. Una realtà così devastante dal quale si può uscire solo con la “fantasia delle visioni” anch’esse orribilmente carnali, intrise di sangue, vomito, violenza, sesso e morte. Un’orgia assoluta laidamente corrosiva, adesso di gran lunga meno impattante (siamo abituati a ben altro!!!), ma non per questo meno virulenta. Politico e fuori dagli schemi ordinari, è sicuramente il figlio della sua epoca (ma non è ingeneroso quel distratto sguardo di sufficienza che gli viene riservato per esempio dal Mereghetti?). Certo, l’evoluzione cinematografica del regista non è stata eccezionale: più ripetitiva e sterile di quanto si potesse supporre, quasi ripiegata su se stessa in una spirale fortemente involutiva e incapace di trovare nuovi sbocchi (vedi i successivi “Andrò come un cavallo pazzo” del 73 che è il seguito e la conclusione molto meno efficace di “Viva la muerte” e il Goyesco “L’albero di Guernica” girato a Matera nel 75 con la nostra Melato ) ma non è pur vero che ogni film è generato dai sommovimenti (anche estetici) degli anni di riferimento e che a questi ci si deve rapportare per valutarlo e considerarlo, soprattutto quando si tratta di opere così profondamente intrise di realtà e fermenti tanto specifici? Indubbiamente allora non possiamo togliere a questa pellicola la sua importanza determinante e assoluta nonostante i necessari ridimensionamenti (come si sa, con certe opere il tempo è spesso impietoso).Rivederlo con gli occhi dell'oggi significa infatti trovarlo adesso superato in alcune sue parti ,forse persino un tantino anacronistico: ormai purtroppo abbiamo difficoltà ad immergerci fino in fondo anima e corpo all’interno di un immaginario creativo che non è più così "stravagante", nè siamo ancora capaci di “stupirci” di fronte a somolo provocazioni.) Più semplicemente, il cinema pè nel frattempo andato "molto oltre" e quello di Arrabal può essere scambiato per sterile sperimentalismo un pò grandguignolesco (anche se è un pò troppo riduttivo). Tutto condivisibile (o gusti e le percezioni si modificano) ma questo non cancella certamente l'impatto di quella prima lontana visione che per me rimane straordinario, e allora per riconfermarne la grandezza "nonostante tutto" sia pure un pò offuscata, e ridare in qualche modo a Cesare quello che è di Cesare, vorrei per lo meno concludere riportando alcune parti della critica di Alberto Moravia pubblicata sull’Espresso all’indomani dell’uscita in Italia della pellicola (anno 1973) che è un sostegno molto significativo alla mia tesi del giudizio rapportato al "momento della creazione": “VIVA LA MUERTE DI FERNANDO ARRABAL E’ UN FILM DOPPIAMENTE AUTOBIOGRAFICO, CIOE’ SIA NEGLI EVENTI CHE SONO QUELLI DELLA VITA STESSA DELL’AUTORE, SIA NELLE DEFORMAZIONI CHE L’AUTORE NON PUO’ FARE A MENO, PROPRIO PERCHE’ E’ PROFONDAMENTE E DIRETTAMENTE IMPEGNATO NELLA SUA OPERA, DI INTRODURRE NEGLI EVENTI. (……) NEL FILM, OLTRE ALL’AUTOBIOGRAFA FATTUALE, C’E’ ANCHE QUELLA INTERIORE. (…..) PERCHE’ INSISTO SUL DOPPIO AUTOBIOGRAFISMO DI VIVA LA MUERTE? ANZITUTTO PERCHE’ SPIEGA L’ATMOSFERA DOLOROSA E SOFFERTA DELLA VICENDA. E POI PERCHE’ E’ LA CHIAVE PER ARRIVARE AL NUCLEO CENTRALE, TRAGICO E STRAZIANTE, DELL’ISPIRAZIONE DI ARRABAL. IL RAGAZZO FANDO AMA SUA MADRE DI UN AMORE ECCESSIVO, CHIARAMENTE EDIPICO, CHE ALLA FINE POTREBBE PORTARLO, PER INSTINTIVA RIVALITA’ A PRENDERE LE PARTI DELLA DONNA CONTRO IL PADRE. MA FANDO SENTE, AL TEMPO STESSO, OSCURAMENTE, CHE DEVE RIVOLTARSI CONTRO SUA MADRE E CONTRO IL MONDO RETRIVO E BIGOTTO CHE ESSA INCARNA. ALLORA, CON MEZZI DRASTICI E DISPERATI, EGLI OPERA UNA SCELTA ESISTENZIALE. TRA SE’ STESSO E SUA MADRE GETTA LA DELAZIONE MATERNA, IL DESTINO DEL PADRE, E, ALLA FINE, LA RIVOLUZIONE. SI IDENTIFICA, INSOMMA, CON IL PADRE “ROSSO” E RIFIUTA PER QUESTO LA MADRE FRANCHISTA. (….) IL FILM E’ RACCONTATO A DUE LIVELLI, QUELLO DELLA VITA QUOTIDIANA IN UN BORGO SPAGNOLO E QUELLO DELLA VITA INTERIORE DI UN RAGAZZO ALLE PRESE CON IL SUO INCONSCIO. NELLA DESCRIZIONE DELLA VITA QUOTIDIANA ARRABAL E’ REALISTICO, DEL REALISMO, PERO’, FERMO E INCANTATO CHE E’ PROPRIO DEI SURREALISTI, A COMINCIARE DA BUNUEL. LA VITA INTERIORE, D’ALTRA PARTE, ACCOMPAGNA QUELLA QUOTIDIANA CON UN FLUSSO CONTINUO DI IMMAGINAZIONI SIMBOLICHE, VIOLENTE, TRUCULENTE. MA I DUE LIVELLI SI INTERSECANO E SI CONFONDONO. ARRABAL HA CAPITO CHE IL SOGNO E’ ALTRETTANTO REALE DELLA REALTA’; E CHE MENTRE UNA COSA PUO’ ESSERE VERA O FALSA, TUTTO, IN COMPENSO, E’ REALE, COSI’ LA VERITA’ COME LA MENZOGNA. LA BELLA ZIA CHE SI DENUDA DAVANTI AL CROCIFICISSO E SI FA FUSTIGARE DAL RAGAZZO, E’ UN SOGNO OPPURE UNA REALTA’? LA MADRE CHE SPUTA SUI FUCILATI, E’ UNA REALTA’ OPPURE UN SOGNO?. E’ STATO OSSERVATO CHE IN VIVA LA MUERTE ARRABAL ATTINGE A PIENE MANI NEL MUSEO DEGLI ORRORI DELL’ONIRISMO SURREALISTA COSI’ CHE NEL FILM, ACCANTO A PARTI SENTITE E EAUTENTICHE CI SAREBBERO PARTI DI MANIERA. NON SONO DI QUESTO PARERE. IN REALTA’ COME TUTTI SANNO ANCHE SE NON VOGLIONO AMMETTERLO, L’INCONSCIO E’ PIENO DI MOSTRI CHE ARRABAL HA EVOCATO CON ESATTEZZA IN UN CONTESTO CHE LI GIUSTIFICA. L’AVERE STABILITO UN RAPPORTO DIALETTICO TRA I MOSTRI DELL’INCONSCIO E LA VITA MORALE MI PARE UNO DEI MERITI PRINCIPALI DI QUESTO FILM ECCEZIONALE. (….) AFFASCINANTI I DISEGNI SADICI DI TOPOR, ACCOMPAGNATI DALLE NOTE BEFFARDE DI UNA AGRA CANZONCINA INFANTILE DANESE”. Tutto qui? no, c'è dell'altro: vorrei citare anche Breton che lo definì un film “DI UNA BELLEZZA CONVULSA” (e scusate se è poco). Tornai da Parigi ovviamente con il “santino” (l’unica cosa che potevo permettermi): il 45 giri della Barclay che riproponeva proprio quella “beffarda e agra canzoncina danese” dei titoli di testa, Ekkoleg”, catalogato e iconizzato insieme ai manifesti delle mostre più significative viste durante il soggiorno: Klee, Miro’ e Roualt, tutte immagini che ancora campeggiano immarcescibili ed eterne, attaccate alla parete della mia camera da letto a imperitura memoria (e io naturalmente, forte di quei sentimenti lontani ripristinando le antiche emozioni, non posso evitare di assegnargli forse adesso un leggermente eccessivo quattro stelle!!!!)

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