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Tutta la vita davanti

Regia di Paolo Virzì vedi scheda film

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La recensione su Tutta la vita davanti

di shadgie
7 stelle

Nel 2008 era proprio così, o almeno sembrava esserlo. Sembrava che il dogma della crescita socioeconomica, inattaccabile, risiedesse in quei palazzi autogeneratisi, come siluri fantascientifici nel deserto selvatico dell'ultra periferia metropolitana. Sembrava quasi che precariato non fosse una brutta parola, ma un poetico contraltare fonetico di quella flessibilità intellettiva, emozionale e corporea richiesta agli aspiranti cadetti del mercato del lavoro. Si poteva credere, persino, che in quegli edifici impersonali tagliati da linee architettoniche grossolane e da luci nette, sedi di incontri, colloqui creativamente surreali e infine di lunghe giornate lavorative, qualcosa di meraviglioso e orrendo potesse accadere. Cinematograficamente parlando...(chi scrive ha frequentato il mondo dei colloqui per lavori non qualificati in condizioni molto simili a quelle della protagonista ma da romana di nascita, quindi già un po' fatalista). "Tutta la vita davanti" trae ispirazione dal saggio di denuncia "Il mondo deve sapere" di Michela Murgia, per poi discostarsene. Marta è una delle tante eroine atipiche disegnate dall'arguzia frenata di Paolo Virzì, regista orgogliosamente provinciale capace di reclutare, però, cast contenenti i nomi più blasonati della commedia italiana pre e post 2000, cast soprattutto romano-centrici. Come una novella principessa delle fiabe, caduta in disgrazia, la 24enne rossa sicula ha una madre amatissima, ma che si appresta a lasciarla, come in un topos letterario irrinunciabile per il giovane sprovveduto viaggiatore che si sposta nella grande città opprimente e matrigna (quest'ultimo, invece, un tòpos irrinunciabile della cinematografia di Virzì: si veda Caterina va in città, Ovosodo, Tutti i santi giorni,che tra l'altro ripropone la coppia toscano-siciliana, ecc...) e deve farlo riorganizzando la propria devastazione emotiva e le proprie radici. La spalla di un manager venditore del nulla le dà fiducia, salvo poi rimangiarsela in un secondo momento, mentre urge trovare un alloggio, metabolizzare la separazione dal fidanzato fuggitivo in Europa perchè ha la laurea "giusta"(quel Gabbriellini così poco fortunato al cinema, nonostante il successo di Ovosodo) e dall'ovattato mondo accademico romano. La spontaneità neofita e la proprietà di linguaggio superiore alla media (piuttosto bassa) del call center rendono Marta una buona venditrice, eppure lo spiritello puntuto dell'analisi "umanista" non sembra sopirsi in lei, che osserva sempre più spaesata fino a picchi di vero terrore ciò che le accade intorno. L'iniziazione è sancita da una danza forse improbabile, ma efficace nel suo coreografico surrealismo: una danza letterale, un tribale balletto in cui la spalla di cui prima, una mezza-manager tiratissima e agguerrita con gli zigomi puntati sul mondo (Sabrina Ferilli, un personaggio che diventa attrice solo con Virzì), svela alle allieve il segreto rituale per rendere bellissima e proficua una giornata che, in realtà, si prospetta terribile. Seguono ingiustizie, incongruenze contrattuali, competizioni sfrenate, gelosie - la manager è ossessionata dal datore di lavoro, tipico residuato di rampantismo romanesco che cerca di darsi un tono (Ghini) - un sindacalista dalla faccia bonaria ma moralmente arido (l'azzeccato finto timido di Valerio Mastandrea), una coinquilina-collega che è al centro di una famiglia disfunzionale. Quest'ultima, contrapposta al candore interpretativo ed estetico dell'allora sconosciuta Ragonese, ha il volto ed il corpo sovraesposto di Micaela Ramazzotti, futura moglie del regista. Dato forse non proprio supeficiale, poichè si avverte spesso l'interesse e l'indugiare della regia sulle espressioni e i corrucciamenti di quest'attrice non proprio espertissima ma esaltata dalla parte, quella di una ragazza madre assistita a distanza da una madre preoccupata ma il più delle volte lasciata a se stessa, in uno stato di simil-ebbrezza perenne e di semialfabetismo da cui la piccola figlia tenta tenacemente di emanciparsi. L'odissea della protagonista vira tra sbandamenti estetici, narrativi (la ragazza guadagna qualche soldo consegnando ad una rivista estera un saggio sul Grande Fratello, quantomeno anacronistico come fenomeno sociologico nel 2008) e forzatametne liberatori (la scena di sesso in auto con il super lavoratore Elio Germano) e situazioni che, pur derivando da quella tendenza del Virzì autore di semplificare la realtà, risultano perfettamente verosimili: gli eccessi isterizzanti del mondo del lavoro tutto, la rabbia malcelata di fronte ai ritrovi con ex compagni di università ben più inseriti nell'industria del nulla e, dunque, inconsapevoli di cosa accade a pochi passi da loro, il contrasto tra snobismo connaturato e chiacchiere drammatizzate sugli autobus di borgata, il rapporto altalenante, imcompleto ma non del tutto insincero, tra Marta e la sua coinquilina. Il pregio di questo film, rispetto a pellicole di buon successo del passato, è racchiuso nell'abbandono almeno parziale del carinesimo di tante pellicole virziniane e non: la purezza iniziale del personaggio centrale si sporca a contatto con la nuova realtà, le bruttezze architettoniche e umane inghiottono il percorso con derive grottesche e orrorifiche a discapito di un realismo da cartolina presente altrove e, soprattutto, la banale e bonaria espressione del titolo viene disvelata in tutta la sua vanità feroce: "tutta la vita davanti" è quella vita che si consuma nel pantano del compromesso, dell'asfissia di tutto quel corollario di cose che non vorremmo fare e "abiti" che non vorremmo mettere. Dispiace che però, nel finale, Virzì tenti un epilogo thriller raffazzonato e non esattamente nelle sue corde, strascicandolo poi per la consueta scena di chiusura sulle note di "Whatever will be, will be".

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