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30 giorni di buio

Regia di David Slade vedi scheda film

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La recensione su 30 giorni di buio

di scapigliato
8 stelle

Non è un film d'azione mascherato da horror, uno di quegli action-horror insulsi che ti fanno piangere (vedi alla voce "Van Helsing" o affini). Il film di David Slade, nato dal fumetto di Steve Niles e Ben Templesmith, recupera l'idea classica del vampiro (la nave che li trasporta e le condanne all'eternità e a sciogliersi alla luce del sole), la ripassa tra celebri predecessori carpenteriani e bigelowiani, per poi alla fine variarla clamorosamente. Il trucco che li deforma li rende credibili anche agli occhi dello spettatore abituato ai fin troppo nauseanti ritocchi in CGI, e restituisce a quello attento ed esigente il fascino del vero cinema. Infatti, il film ricorda quelli che si giravano fin verso la metà dei '90, quando l'effetto digitale non era ancora imperante e distruttivo, azzerante il richiamo alla plasticità, fondamentale nella dialettica bidimensione/tridimensione, ovvero cinema/percezione cinematografica. Slade, grazie ad un sapiente lavoro di make-up, di set-decoration e di fotografia, costruisce un film che non sembra vero essere stato prodotto da Sam Raimi, che da produttore non ne aveva azzeccata ancora una. Il film è infatti antiludico, realistico, crudo, zero patinatura e zero opacità, anche se manca la sempre apprezzabile grana grossa. É un film che si sofferma sui volti, lascia le voci fuori quadro. Non è, in definitiva, il solito blockbuster americano che utilizza le icone dell'horror (che oggi purtroppo vende, inflazionandosi) per colorare un film vuoto di tutto, e pieno zeppo di sole esplosioni, personaggi affettati, retoriche di gruppo ed effetti digitali riempitivi e spersonalizzanti lo sguardo autoriale. "30 Days of Night" è il miglior horror dopo "28 Days Later", e può contare su un attore di razza, il migliore della sua generazione, la Mid-Generation, come la chiamo io, "la generazione di mezzo", sottovalutata e oggi pure orfana di Heath Ledger. Ecco che Josh Hartnett, solido come sempre, dà volto al protagonista del film, incarnando il dilemma da "denti stretti" che fa da subplot alla storia. I vampiri arrivano, comandati dal figlio di John Huston, Danny, e accompagnati da un'inusuale trascendenza, compiono un massacro spietato. Superano infatti l'archetipo vampiresco e diventano concrezione di un incubo, di un brutto sogno, per stessa ammissione del loro capobanda. Una trascendenza che li allontana dai realistici vampiri dei giorni nostri, quelli della Bigelow per intenderci, senza però avvicinarli a quelli classici, dai sottotesti erotici dei primi "Nosferatu", o a quelli sociali tipo "The Addiction" di Abel Ferrara. Questi vampiri non arrivano da una tomba scoperchiata; non sono stati liberati da nessun nascondiglio; non sono il frutto di una maledizione che li ha risvegliati. Sono sono la realtà. Sono l'anima nera, quella marginale, nascosta e addormentata, dell'America paradigma del mondo Occidentale, e perché no?, pure Orientale. Danny Huston, il capo dei vampiri, spiega come ci abbiano messo secoli a far credere agli uomini che loro sono solo dei brutti sogni, delle leggende di paura generate dall'ignoranza e dalla superstizione. E questo non può non farci pensare a tutte le menzogne che le istituzioni e le chiese di tutto il mondo creano ad hoc per nascondere spiacevoli e poco confortanti verità. Ma il Reale ritorna, magari quando fa buio, per non tradire le aspettative, e miete le sue vittime. Ecco che il personaggio di Josh Hartnett è lo specchio pulito, integrato e sano di quegli esseri tenebrosi che agli occhi della gente bene sono sporchi, marginali e malati: dei mostri. E questo riflesso deforme si compie lungo la parabola personale di Hartnett: l'innocenza si trasforma nell'orrore che arriva da fuori, diventa interno e conduce alla disperazione. Hartnett, dalla sua sua durezza, lascia trapelare il senso stanco e sfinito di una vita marginale, come la cittadina americana di Barrow, teatro della mattanza, che è il comune più a nord e più isolato degli Stati Uniti. Sarà sceriffo, sarà fratello, sarà amante devoto e sacrificale, ma nulla può tutto questo contro la disperazione di un "paese" ridotto ai minimi termini. Si diventa poi, cenere.
Ma il film di Slade, regista che speriamo si riconfermi in futuro come abile artigiano di horror alla vecchia maniera, è anche altro, e non solo affondo politico-sociale, come il grosso del fumetto d'autore di oggi, ma è anche e soprattutto un film tecnicamente valido. Sempre scomodando Carpenter, il suo "30 Days of Night" ricorda un western. Il problema forse è che tutto, a conti fatti, è "western", visto che quest'ultimo non è solo un genere, ma è anche stile e poetica. Ma tanto è, quindi si possono rintracciare benissimo le modulazioni che strutturano l'horror glaciale e notturno di Slade in un riuscitissimo western atipico. Abbiamo le ampie distese di ghiaccio al posto di quelle di sabbia e polvere (fate attenzione alle sequenze iniziali, proprio qui è ravvisabile l'intenzione autoriale dell'intero progetto); abbiamo gli sceriffi e le loro donne; abbiamo i banditi che assaltano la città; abbiamo l'incontro/scontro nel saloon (qui soprattutto, del western sono presenti i ritmi e i tagli dell'immagine); abbiamo l'assedio dei banditi alle case; abbiamo il paese a ferro e fuoco; e soprattutto abbiamo l'immancabile duello finale. Tutto questo racchiuso in un film che potenzia il peso visivo dell'essenziale, dedicandosi ai dettagli del viso, stringendo sulle faccie (segno identitario del Cinema maiuscolo: il primissimo piano), massacrando i corpi prima lievemente e poi senza indugiare sullo sguardo. Anche se l'iperazione è purtroppo presente anche in questa pellicola, il film è pressocchè svuotato di riprese inutili, tipiche televisive o pseudo-reality, ma preferisce la messa in scena sobria, essenziale, scarna, fatte chiaramente le dovute esigenze che il genere impone, come la bellissima inquadratura a piombo sulla cittadina macchiata di sangue e come la forte dose di gore e l'estetica splatter che s'impossessa della pellicola verso la fine. Ci sono rallenty e acellerazioni che se, mentre i primi sono storicamente sinonimo di bellezza cinematografica perché eternano il gesto che nella realtà ci sfugge (vedi Peckinpah), i secondi sono sono degli stratagemmi videoclippari con cui ringiovanire la pellicola e darle un appeal commerciale e giovanilistico. Badate bene: "giovanilistico" e non giovane. Non è ovviamente il caso di "30 Days of Night", che se non è un capolavoro al 100%, è sicuramente un film che batte 10 a 0 tanti horror di cassetta, sia grazie al lavoro tecnico, sia grazie alla presenza di Josh Hartnett che resta sottovalutato e al tempo stesso gigantesco nella sua presenza scenica.

Su Josh Hartnett

E' IL PIU' GRANDE DI TUTTI. GIGANTESCO. RESTA IL MIGLIORE DELLA MID-GENERATION

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