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Sweeney Todd. Il diabolico barbiere di Fleet Street

Regia di Tim Burton vedi scheda film

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La recensione su Sweeney Todd. Il diabolico barbiere di Fleet Street

di spopola
8 stelle

Straordinaria ballata macabra che non lascia alcuno spazio al positivismo della ragione e che forse racchiude proprio il senso più profondo della storia nell’agghiacciante risposta della figlia prigioniera all’ottimismo propositivo del giovane innamorato arrivato per salvarla: “Tutti i nostri sogni si avverano? Non ho mai avuto sogni, soltanto incubi”. E il film è davvero un incubo senza fine e senza speranza, ossessivo e “dark” come solo Burton sa essere, con forti venature horror che sfociano negli eccessi visivi e virtuosisticamente macabri del Grand Guignol (fino dai titoli di testa sulla splendida ouverture orchestrale della partitura musicale) con quelle improvvise invasioni di “rosso carminio” (un piccolo rigagnolo di vernice purpurea – perché mai come in questo caso il sangue è artefatto e “irreale” ma proprio per questo ancor più tragicamente disturbante - il tritacarne che “macina” i corpi per farne succulenti manicaretti culinari, i fiotti improvvisi che sgorgano e zampillano come inarrestabili fontane, dalle gole squarciate dalla lama tagliente del rasoio) a “scardinare” la compattezza cromatica di un mondo cupo tutto giocato sulle infinite sfumature del nero che impregna praticamente l’intera pellicola (e le anime dei personaggi) e rende eccezionali le ineguagliabili scenografie “infernali” che incorniciano il racconto, un “capolavoro” assoluto giustamente premiato con l’Oscar, di Dante Ferretti e socia (una Francesca Lo Schiavo così “mostruicizzata” dagli interventi chirurgici “ringiovanenti”, da sembrare anche lei, la serata degli Oscar, una “figurina” uscita fuori da quel mondo oscuro ricostruito con competente maestria sullo schermo, quale testimonianza vivente dell’orrore “rappresentato”). E il film vive di bagliori e di riflessi (quelli delle facce “rimandate” in modo parziale e distorto, dalle lame del barbiere, oppure decomposte come in un puzzle scompaginato, dagli specchi rotti e sbrecciati o dai vetri smerigliati nei quali si riflettono, che ci aiutano a vedere oltre l’apparenza, fino in fondo al “buio” delle anime, un’altra delle caratteristiche peculiari e ricorrenti che diventa “cifra stilistica”, che rende grandiosa e anche insolita questa ulteriore, stupefacente fatica registica) in una atmosfera goticamente esasperata che esalta ancor di più la maniacale attenzione di Burton all’oggettistica. Sono proprio i dettagli infatti (la caldaia vomitante fuoco, le lame argentate del rasoio, la sedia trappola, le strade affollate di una Londra putrida e sporca, le acconciature, i costumi e i trucchi) il punto si forza quasi maniacale che aiuta a creare quel mondo “fantastico e oscuro” che restituisce appieno il senso e la dimensione “del ventre flaccido del male” nel quale si trovano immersi i personaggi. Il film (è l’adattamento “profondamente Burtiano” di un musical “sinfonico” di Stephen Sondheim di larghissimo successo in America e oltre, che ha avuto un’edizione anche in Italia, ripresa per l’occasione in alcune piazze credo dell’Emilia Romagna) narra una storia cattiva e senza speranza intrisa di sangue, romanticismo, sopraffazione, malefico uso del potere, vendetta e degrado morale, che ha molteplici ascendenze narrative (a partire dal “Conte di Montecristo” di Dumas tanto per rimanere nel concreto). Una storia dove non ci sono “eroi” da difendere, nemmeno il diabolico protagonista che ha ragioni da vendere per essere implacabile, ma la cui follia devastante lo porterà davvero oltre il limite in un inarrestabile furore parossistico che lo precipiterà a sua volta – artefice e vittima - in quell’ecatombe finale degna di una tragedia elisabettiana. Se una volta i suoi malinconici, infelici “anomali” protagonisti erano semplicemente degli antieroi da mettere in opposizione (anche positiva) alla crudele “normalità” della società omologata, qui non ci sono più differenze, e il male è una gramigna infestante che avvolge fino alla dannazione totale tutti e tutto, senza alcun scampo o possibilità di redenzione. Il tocco è stralunato e potente (mai prima di questa volta era stata esplicitamente “rappresentata” sullo schermo dal regista la violenza con tanta improvvisa crudeltà), ma c’è la contrapposizione “leggera” del canto (la parte musicale è quasi prevalente sul parlato) mentre “giù si macella” a rendere ancora più strepitoso l’impatto (un’altra “coraggiosa” scommessa vinta con successo e maestria, perché le bellissime composizioni musicali sono tutt’altro che “commerciali”, vivono di un sinfonismo classicheggiante che poteva rendere “ostico” l’impatto, e invece costituiscono l’affascinante fulcro su cui si impenna la fantasia creativa dell’immaginario). L’antefatto è rapido e “prezioso”: una luminosa splendente “giocosa felicità” che la sapiente fotografia di Dariusz Wolski rende anche cromaticamente antitetica alla cupezza putrescente delle tinte più cariche e tenebrose nelle quali intinge il pennello per disegnare poi il “presente” della tragedia. Inutile comunque soffermarsi sui particolari del racconto già da tempo di dominio pubblico, diciamo semmai che il film oltre a rappresentare una metafora della prepotenza vanitosa degli uomini e del potere (un potere senza alcun scrupolo morale, capace di mandare al patibolo persino i ragazzini) è anche un viaggio all’interno di una mente disturbata, (o anche l’inevitabile “fine dell’innocenza” perché tutti o quasi, infanzia compresa, risultano contaminati). Che dire poi degli interpreti? Il binomio Burton/Deep è eccezionale, si conferma un connubio insostituibile e così creativo, da diventare “sublime”: “Sweeny ha lo sguardo perso altrove, gli occhi fissi sulla lama di rasoio, sul riflesso del suo volto nella mezzaluna di metallo. Negli occhi ha la catatonica fissità di chi si nutre di un’unica immagine, ossessiva ed infinita” (Silvia Colombo – Film Tv) e Deep “è” Sweeny al 100% , non poteva essere che lui a mediare così bene il Burtonpensiero e a rendere “palpabile” sullo schermo “l’idea” per restituircela perfettamente rappresentata in quella presenza incombente dolorosa e terribile. La sua caratterizzazione è davvero prepotente: allucinato e infernale, torvo e magnetico, un pallore quasi cadaverico, le orbite che sprofondano nel nero delle occhiaie e ne fanno quasi il fantasma di se stesso, la pupilla luciferina che inquieta, e una insospettata “qualità” canora che solo gli interpreti di razza sanno sfoderare con tanta “sapienza” carismatica da far diventare “empatico” e ancor più comunicativo e coinvolgente lo strumento vocale utilizzato con inusitata “competenza”. Una interpretazione (ancora una volta) davvero memorabile la sua, come straordinaria risulta Elena Bonham Carter (un’altra attrice“feticcio” del regista) quale signora Lovett, inquietante figura melodrammatica e incorporea, quasi “assurda” nella sua improbabile, stralunata consistenza, anch’essa destinata a finire all’inferno. Ma come sempre in Burton tutto il parterre degli interpreti è in perfetta sintonia col risultato (il “perfido” giudice Turpin turbato nella carne e nei sensi di Alan Rickman, la sapida caratterizzazione di Adolfo Pirelli fatta da un Sacha Baron Cohen in stato di grazia, l’insostituibile presenza di Timothy Spall, e via via tutti gli altri). Un’altra prova maiuscola insomma che conferma l’eccellenza di un nome (quello di Tim Burton) che è una garanzia e una certezza.

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