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American Gangster

Regia di Ridley Scott vedi scheda film

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La recensione su American Gangster

di ROTOTOM
8 stelle

American Gangster è un melting pot di suggestioni seventies, una creatura formatasi nell’immaginario da milioni di immaginari cinematografici trasportati di peso nelle polverose strade del Bronx. Un omaggio alla blaxploitation anni 70’ , quella dei “nigger” dalla camminata sincopata e i colletti appuntiti da far male, i capelli crespi e gonfi, il successo raschiato con le unghie nei panetti di eroina, il potere che comincia a ingrossare tutto il Black esistente fino ad allora solo confinato nei ghetti come contorni di una società egemone bianca e che ora esonda per le strade esigendo quartieri e palazzi, onorabilità e potere rifiutando il ruolo da carne da macello per quel potere bianco che cura i propri interessi in Vietnam. L’eroina è la fuga dalla realtà, il sogno Americano tagliato chimicamente in qualità superiore a quello che la realtà stessa ti offre. E a prezzo inferiore. Frank Lucas gangster All American da bravo imprenditore si reca alla fonte del Sogno Americano, il Vietnam e attraverso i suoi martiri importa chili e chili di sogno, nelle bare dei bravi americani morti facendone messaggeri della nuova società che avanza. Il detective Richie Roberts è onesto. E questo basta a metterlo in cattiva luce nei confronti dei colleghi che cavalcano a pelo l’opportunità di vivere dalla parte legale del mondo sfruttando tutti i lati positivi dell’illegalità. Sembra che il periodo storico favorisca le doppiezze, nella vita reale come nel cinema che di recente ha affrontato in modo massiccio il tema del tradimento e della doppia vita. Si veda The Departed a sua volta tratto da un ben più asciutto Infernal Affairs di Andrew Lau, Honk Kong. Lo stesso Cronemberg con il dittico A History of Violence e l’ultimo Eastern Promises. American Gangster tocca questo tema come pretesto per fare risaltare le caratteristiche fondamentali dei due personaggi principali, che non si incontrano mai se non alla resa dei conti, essi sono la faccia di una medesima medaglia, eticamente corretti nei loro difetti divisi dal labile confine tra legale e illegale. Facce che si confondono fintanto che la medaglia gira vorticosamente sul proprio asse mischiandone i lineamenti, finendo inevitabilmente per scegliere un lato nel momento in cui il moto finisce. Ridley Scott, finalmente tornato a dirigere un buon film, sceglie di non decidere quale faccia della medaglia privilegiare preferendo una narrazione parallela e paritetica, distanziato quanto basta dal riprendere una visione d’insieme della storia senza affondare in nessuno dei temi che la seppur ottima sceneggiatura, vero punto di forza del film, suggerisce. Il montaggio parallelo conduce le due vite, le due facce della stessa medaglia, attraverso il rapporto con le rispettive famiglie, il confrontarsi con poliziotti onesti intraliciati da poliziotti corrotti; il tema del patriottismo è filtrato attraverso la televisione che trasmette immagini del Vietnam e la società che cambia viene sedotta dalla Blue Magic, bustina azzurra di Sogno Americano da spararsi dritto in vena. Entrambi si danno da fare per migliorare la loro vita, ognuno nelle rispettive capacità: criminale quella di Lucas, legale per il buon poliziotto. Questo è tutto il contorno di una onesta storia di gangster, contorno che serve a rendere più gradevole la pietanza principale ma senza un approfondimento da rendere indimenticabile il tutto. Alla fine la moneta smette di girare su sè stessa e rimane in bilico, dopo un paio di prefinali che contribuiscono a diluire una tensione già di per sé non memorabile, il finale sa tanto di missione compiuta. Non c’è il furore del De Palma di Sarface o il sontuoso sovraccumulo stilistico di Carlito’s Way; o l’entomologia famigliare di Scorsese in Goodfellas. Non c’è la magnificenza brutale delle immagini di Mann né l’epica di Coppola. Non ci sono perché questo è un Ridley Scott operaio di un film su commissione, un prodotto di genere che al genere non aggiunge nulla se non un altro titolo solido, solidamente diretto e puntualmente fotografato, come da caratteristica peculiare del nostro, un po’ ridondante come caratteristica peculiare del nostro, un po’ di asciuttezza in più non avrebbe guastato. Scott si affida totalmente agli attori, alle loro facce e all’istrionismo della loro gestualità, cosa che funziona con il prediletto e sovrappeso Russel Crowe ma che risulta fastidiosamente barocca e ai limiti, soliti, dell’overacting per Denzel Washington, un attore sorprendentemente sopravvalutato e che, parere strettamente personale, pare costantemente fuori parte qualsiasi film interpreti. Ma tant’è, onore ad un signor regista che ha aggiunto un altro tassello alla fragorosa storia di malavita americana e che dopo dieci anni di imponderabili schifezze almeno stavolta un beneaugurate saltino dalla sedia ce lo fa fare…Dr.Scott...uh!

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