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La guerra di Charlie Wilson

Regia di Mike Nichols vedi scheda film

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La recensione su La guerra di Charlie Wilson

di michemar
7 stelle

Se fu sbalorditiva l’opera del deputato democratico Charlie Wilson, altrettanto si può dire della straordinaria collaborazione di due cineasti di assoluto livello come il regista Mike Nichols, qui purtroppo al suo ultimo film, e lo sceneggiatore Aaron Sorkin. Un gran bel film!

Se fu sbalorditiva l’opera del deputato democratico Charlie Wilson, che nella sottocommissione della Difesa riuscì ad aiutare lo scalcagnato esercito dei mujaheddin durante l'invasione sovietica dell'Afghanistan negli anni ottanta - operazione che fu chiamata in codice dalla CIA “Cyclone" e che andò dal 1979 al 1989 – portando il budget iniziale degli aiuti militari e di armamenti di soli 5 milioni di dollari alla iperbolica cifra di 100 milioni, altrettanto si può dire della straordinaria collaborazione di due cineasti di assoluto livello come il regista Mike Nichols, qui purtroppo al suo ultimo film, e lo sceneggiatore Aaron Sorkin, autore oggi in ascesa strepitosa. Nichols è stato un autentico grande regista anche perché la sua estrazione teatrale ha sempre portato gli attori al giusto approccio verso il personaggio da interpretare, ma soprattutto lo dimostrava con la sagacia con cui sviluppava le sequenze importanti dei suoi film, senza fronzoli e orpelli: la spettacolarità era tutta sugli interpreti, sempre perfettamente a loro agio. Dal canto suo, Sorkin, dopo tre sceneggiature – tra cui il notevole Codice d’onore di Rob Reiner, di cui sta curando la riscrittura per la TV – e tanti serial, arriva a questo film forte dei suoi precedenti script avvincenti. Ecco, se proprio vogliamo vedere la spettacolarità in Charlie Wilson's War la troviamo facilmente nel susseguirsi dei dialoghi, continuamente brillanti e intelligenti, pieni di battute al fulmicotone e saturi di ironia acida ed efficace, battute da non perdere in alcuna scena: una goduria continua.

 

C’è da premettere che la vera storia è già di per sé una vicenda che sa di curioso e avventuroso, per giunta con personaggi particolari, a cui ovviamente la sceneggiatura di Aaron Sorkin ha saputo dare maggior risalto e particolarità. A visione ultimata insomma si finisce che ognuno degli spettatori è capace di conoscere alla perfezione i tre personaggi principali: il deputato Charlie Wilson, l’attivista politica ma soprattutto affarista Joanne Herring e l’agente CIA Gust Avrakotos sono tre figure che si imprimono nella mente ed è difficile dimenticarli. Tutto merito sia della regia che appunto di questa magistrale sceneggiatura.

 

L’altra colonna portante di questo portentoso film è il pool degli attori che hanno contribuito alla riuscita dell’opera. Tom Hanks, che non finisce mai di stupire per la sua disponibilità ai vari personaggi che ha avuto nella sua lunga carriera artistica, è esuberante al punto giusto, proprio – immagino – come sarà stato il vero Charlie Wilson: ora calmo e furbo, ora su di giri, ma sempre con un bicchiere di buon whiskey, anzi anche pessimo, l’importante è che fosse whiskey; un uomo di parola, anzi anche di più. Ciò che prometteva lui lo realizzava, come una questioni di vita o morte. Tom Hanks è anche stavolta efficace, come tutte le altre occasioni.

Julia Roberts è la più pimpante degli ultimi ruoli che le sono stati affidati: truccata come una vamp degli anni 50/60, perspicace e grintosa come doveva essere la vera Joanne Herring, sempre sul pezzo anche se nel frattempo concedeva le sue grazie a chi le andava a genio, a cominciare da quell’impenitente chiamato Charlie Wilson. Bravissima!

Ma su tutti si erge un gigante: Philip Seymour Hoffman è come sempre in maniera imbarazzante un piano superiore a chi lo circonda. Straripante, sboccato, genuino, uomo spia della CIA che bada al sodo, il suo Gust Avrakotos, un americano di origine greca, non fa una piega se si vede costretto ad usare misure non proprio lecite o a ricattare il superiore che lo ostacola. Un personaggione, insomma, un ruolo che inevitabilmente gli calza a pennello. Inevitabilmente. Perché lui è semplicemente PSH, una garanzia per ogni regista che lo chiamava.

Giusto però ricordare anche la brava e bella Amy Adams che non aveva ancora raggiunto la meritata notorietà – infatti si fece notare con il bellissimo Il dubbio – ma che qui si fa notare e come. A lei spetta il ruolo della segretaria del deputato, Bonnie Bach, tutta dedita solo al servizio del suo principale, fino alla totale abnegazione. Con le sue smorfiette e gli sguardi fatti con i suoi bellissimi occhioni grigio-verdi (particolare che la hanno portata fino al deludente Big Eyes burtoniano) dimostra continuamente tutto l’amore represso che sbocca in interrotte dimostrazioni di affetto e ubbidienza cieca.

 

È un film assolutamente da recuperare, anche perché in TV è praticamente invisibile ed è da seguire con la massima attenzione, sia per capire bene le manovre politiche statunitensi di quei difficili tempi di guerra fredda (lasciar combattere inizialmente i poveri afgani contro una straripante e aggressiva Unione Sovietica, per poi potenziarli con armi più efficaci in maniera quindi determinante per gli esiti della guerra), sia per seguire un efficace e brillante susseguirsi di dialoghi senza pausa che ricordano il classico Woody Allen dei bei tempi.

 

Mike Nichols ci ha lasciati con un gran bel film!

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