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Il petroliere

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Il petroliere

di spopola
10 stelle

Un affresco con le caratteristiche poderose dell’apologo in cui capitalismo ed evangelismo si fronteggiano in un duello all’ultimo sangue con una focalizzazione prioritaria sul personaggio Plainview in parte ispirato alla figura di Edward Doeherty. L’andamento del film è maestoso e classicheggiante, quasi epico si potrebbe dire.

P. T. Anderson si conferma con questo suo “There will be blood” (il titolo scelto per l’edizione italiana è ancora una volta una stupida concessione all’ovvietà che grida vendetta) come uno dei più validi, intriganti e “spiazzanti” registi della nuova generazione americana, un vero conoscitore del cinema e della sua storia, capace di assimilarne la “lezione” oltre che le regole (e le convenzioni), ma al tempo stesso di rinnovarle nella forma, che riesce, camaleonticamente, ad “adattare” come un guanto alle vicende che via via si accinge a raccontare, piegandola con assoluta maestria al suo “volere” con una sorprendente duttilità. Difficile infatti individuare analogie “strutturali” nel suo percorso. Non ho visto "Sidney”, ma basta analizzare le differenti “metodologie” utilizzate per tutte le restanti opere successive (da “Boogie Night”, con il quale forse è più direttamente imparentata proprio quest’ultima fatica, a quel piccolo gioiello di creatività inventiva ingiustamente sottovalutato, ma che avrebbe meritato una attenzione di gran lunga superiore a quella che gli è stata invece riservata che risponde al nome di “Ubriaco d’amore”, passando per la altmaniana ‘fatica biblica’ di “Magnolia”) per rendersi conto di come diversificato risulta l’approccio e il risultato, anche se la mano rimane sempre forte e volitiva e la critica “feroce e circostanziata”, capace insomma di lasciare, pur nelle differenze, una impronta unitaria di “riconoscibilità autoriale”. E’ analogamente avvertibile l’evidente aumento della consapevolezza: sa di essere bravo e questo lo rende temerario, capace di sfidare e di “sfidarsi”. Si definisce così meglio la sua progressiva, sempre più marcata autonomia “stilistica”, un elemento questo che conferma la straordinaria “maturazione” in atto (anche se “There will be blood” è dedicato ad Altman, ormai il modus operandi del regista risulta indiscutibilmente svincolato da ogni reverenzialità persino verso il suo “dichiarato” mentore). E l’affresco assume le caratteristiche poderose dell’apologo. Capitalismo ed evangelismo si fronteggiano in un duello all’ultimo sangue, e si respira davvero aria di grande cinema. Se vogliamo farne una questione di lana caprina, questa volta sono altri (e molto differenziati) i riferimenti “ispirativi” che stanno alla base della “creazione”, soprattutto Houston e lo Stroheim di “Greed”, ma anche il Welles de “L’orgoglio degli Amberson”, la grandissima lezione di Ford (l’utilizzo “arioso” degli spazi aperti) giù giù fino a Griffith, per risalire per alcune intuizioni, al Cimino de “I cancelli del cielo”, per fare i primi nomi che vengono alla mente (ma anche il Brooks de “Il figlio di Giuda” per la definizione del “falso profeta”). Per carità però: niente Stevens per favore, perché le distanze fra i due sono davvero abissali (o almeno a me sembra così). Le possibili parentele con il “crepuscolarismo” de “Il gigante” riguardano forse, al di là della tematica, solo l’analogia dell’ambientazione e la “grandiosità cattiva” del protagonista, nient’altro. Semmai potrebbe avvicinarsi maggiormente a “I duri dell’Oklahoma” di Kramer, indubbiamente molto più all’acqua di rose e privo della necessaria epicità, ma con un coraggioso tentativo di “critica” all’etica americana del successo, non portata alle “estreme conseguenze” come spesso accadeva con questo regista, salvo che per le opere più “ispirate”, ma che si riusciva abbastanza bene a leggere in filigrana (la lotta dei piccoli contro i più “potenti” pesci grossi del capitalismo rampante, che vedeva il regista indiscutibilmente schierato a fianco dei primi). L’indicazione di “tali numi tutelari” non è comunque assolutamente casuale, perché questa volta Anderson, ha scelto proprio l’andamento lento e “classicheggiante” (solo in apparenza) del “grande cinema che fu”, con una focalizzazione prioritaria sul “personaggio Plainview” in parte ispirato alla figura di Edward Doeherty (monumentale il contributo di uno straordinario Daniel Day-Lewis che giganteggia istrionicamente su tutto e tutti, entra dentro l’anima e il pensiero di ciò che deve interpretare, fino a svelarne i “misteri più profondi”) e sul suo contraltare (un altrettanto significativo Paul Dano) rappresentato dal mistificante, untuoso predicatore evangelico (più sfocato e meno incisivamente “definito” il suo “carattere”, perché il bilanciamento fra i due “contendenti” forse non è perfettamente “calibrato” come invece il finale avrebbe richiesto che fosse, ma si tratta di una piccolissima “pecca” facilmente perdonabile, persino poco avvertita nell’insieme vigoroso di questa cavalcata verso la dannazione) che è in effetti l’altra faccia della medaglia (o anche la sua nemesi), fino a farne quasi due “colossi” allegorici dentro una parabola che privilegia, rispetto alla “storia” pura e semplice, proprio l’aspetto “politico” della visione (che ha echi indiscussi sul presente), ma asciugata da ogni sospetto di enfaticizzazione (o declamazione oratoria da “comizio”) che spesso accompagna – e limita - simili operazioni. Anderson raggiunge così ancor meglio lo scopo prefisso, indubbiamente con meno immediatezza (mi riferisco alla “percezione” empatica dell’approccio), perché più sottile e meditata è la strategia adottata, ed è anche più definita la compiutezza stilistica dell’insieme. La sua è una studiata ed elaboratissima “mediazione artistica” che ha in superficie l’andamento di uno “scontro caratteriale portato alle estreme conseguenze” (potremmo definirlo persino un serrato incontro di boxe sul ring della vita), ma che lascia intravedere altre chiavi di lettura molto più inquietanti e profonde che lievitano nel ricordo e – credo – destinate ad amplificarsi ulteriormente nelle analisi (o “riletture”) a “posteriori”, perché a mio avviso si tratta di un’opera che il tempo contribuirà a far crescere d’importanza e di valore. La lunghezza esasperata (oltre due ore e mezzo) di questo horror metafisico scandito sui temi dell’avidità e della violenza, rende ancor più anomala questa penetrante “romanticizzazione del male”, che sembra trattare questioni individuali, ma si insinua invece con prepotenza dentro l’anima più nera dell’America di oggi, estrae dalla ferita due dei principali “nervi scoperti” di un radicalismo conservatore che è quello che inquina il presente “tragicomico” (si fa per dire) dell’era Bush (la “straordinaria” perversione del possesso e del potere e il folle nonsenso dell’estremismo reazionario dei “culti” deviati dal fanatismo religioso). Si potrebbe dire in sintesi, che è la cupa e sconfortata rappresentazione della “nascita di una nazione” fondata sulla ricchezza (i giacimenti petroliferi che sono il motore del mondo) e la “prevaricazione” e il “plagio” delle dottrine dei falsi profeti, realizzata utilizzando la “similitudine” della storia di un ex minatore alla ricerca dell’Eldorado – l’argento più propriamente - che con le sue “trivellazioni sotterranee” scopre l’esistenza dell’oro nero, ne comprende l’importanza, fino a farne il suo “vangelo” oltre che la ragione primaria della vita. Intransigente e spietato con tutti i nemici che gli intralciano la strada del successo, privo di etica morale e di “compassione” oltre che di sentimento, dovrà a sua volta scontrarsi (e anche “subire” a volte) in più di un’occasione con un giovane predicatore analogamente assetato, anche se in diversa forma e “metodologia”, di denaro e di “gloria”, una lotta titanica che sfocerà nell’inevitabile conclusione finale che il titolo originale preannuncia quasi con ironica preveggenza: “ci sarà del sangue”, e così sarà, ineluttabilmente, quasi come se si trattasse ancora una volta di una “predestinazione biblica” (ma non voglio aggiungere altro per non “guastare” la sorpresa a chi ancora non ha visto il film). Si può dedurre quindi già da queste brevi annotazioni che è una crudele metafora sull’avidità umana (non solo individuale) che “mette in scena” proprio le due anime dominati (quella “economica” e l’altra relativa all’”intransigenza religiosa”, come già accennato prima) della destra conservatrice sempre più prepotente, protagonista assoluta e “drammatica” dell’inizio del nuovo millennio non solo della vita politica Americana (sarebbero “semplici affari loro”) ma anche delle travagliate lacerazioni “attorno” al petrolio e alla democrazia (nonché alla “tolleranza”) che hanno reso così insicuro e intriso di guerre e di sangue, il presente del mondo intero. Ambientata agli albori del ‘900, la pellicola fa in fondo un’operazione per molti versi analoga (solo più ravvicinata nel tempo) a quella “ricostruzione delle origini” fatta da Scorsese con il sul “Gangs of New York” (ovviamente le corrispondenze finiscono qui) nel porsi il problema di evidenziare le radici delle anomalie della contemporaneità, ma diversamente da quello che di solito è stato l’approccio del regista (se si esclude “Ubriaco d’amore”) qui l’andamento è tutt’altro che corale e si riduce quasi a un combattimento fra due galli, anche se sono molteplici le figurine di contorno che “illuminano” il percorso (il figlio biecamente utilizzato per ammantarsi di un alone di rispettabilità, ma poi “ripudiato” impietosamente quando un incidente lo renderà sordo, il “falso” fratello, i potenti concorrenti delle nascenti compagnie petrolifere già consolidate). Insomma un’impresa titanica persino sperimentale nella sua realizzazione “quieta e conforme solo in superficie”, ma assolutamente “controcorrente” sia per durata (straordinari i primi 40 minuti) che per “andamento” narrativo, che deve una grandissima parte del suo valore proprio all’interpretazione “ossessiva”, carnale, addirittura “mostruosa” del protagonista, acclamato vincitore di un meritatissimo premio Oscar (la macchina da presa lo affianca a distanza fortemente ravvicinata, praticamente per l’intera durata del film, si riflette nei suoi occhi “oscuri e fiammeggianti” che trafiggono come lame rabbiose, si sofferma sugli scatti repentini di quei muscoli nervosi tesi come corde di violino, o sui ghigni quasi satanici del suo mobilissimo volto, davvero capace di diventare lo specchio di una deformazione ossessiva, lo “perseguita” senza dargli un attimo di tregua per coglierne ogni più piccola sfumatura o “fremito”, fino a farlo diventare il film stesso). E l’episodio conclusivo, improvviso e “folle”, è l’inevitabile epilogo di una “paranoia distruttiva” (anzi, due): in fondo è sempre nel nome di Dio e del possesso che si compiono i delitti più disumani. Per dovere di cronaca, devo ricordare che la fonte originaria è un dimenticato romanzo di Upton Sinclair (poco più di un pretesto però dal quale la pellicola prende progressivamente le distanze per raggiungere una consapevole “autonomia” che la fa procedere molto oltre le pur lodevoli intenzioni dello scrittore). La sontuosa fotografia di Robert Elswit, davvero magnifica, dona uno spessore prepotentemente realistico all’ambientazione, ed è così straordinaria da farci percepire non solo la viscosità pregnante del petrolio come se anche noi ci fossimo immersi dentro, ma persino l’odore pungente e penetrante che si mescola a quello del sudore dei corpi segnati dalla fatica e dal rancore. Ottima anche la colonna sonora di Jonny Grennwood dei Radiohead, a sua volta innovativa e anticonvenzionale come era necessario che fosse, quasi martellante, che rende ancor più cupamente angoscioso l’insieme. Difficile e imponente, ricco di scene di fortissimo impatto che rifuggono però sempre dalla “spettacolarizzazione” fine a se stessa e di un finale “improvviso” e repentino che può lasciare persino leggermente perplessi (ma ugualmente “grandioso” per come è stato realizzato), è davvero un grande film e a suo modo una conferma e una graditissima sorpresa.

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