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Il caso Thomas Crawford

Regia di Gregory Hoblit vedi scheda film

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La recensione su Il caso Thomas Crawford

di casomai
6 stelle

Una mucca bruca l'erba in un prato, ma nessuno la vede: come dimostrare che esista davvero? A questo celebre paradosso ontologico sembrano riportarci i rovelli legali al centro de Il caso Thomas Crawford. Il protagonista ammazza la moglie a sangue freddo, sparandole in pieno viso. La moglie è ritrovata esanime in casa, da cui peraltro nessuno è entrato né uscito, e lo stesso marito è reo confesso, prima di ritrattare tutto e dare il via alla querelle  giudiziaria. Eppure, sembra suggerirci la sceneggiatura, in una società davvero democratica in cui si è innocenti fino a prova contraria un’ipotesi di realtà non può essere considerata tale fintanto che non è suffragata da prove tangibili: all'occorrenza la pistola da cui sono stati sparati i colpi, intorno al cui ritrovamento gira praticamente tutta la vicenda. Lo stesso Crawford-Hopkins, del resto, dà il la a questa ricerca spasmodica dell’evidenza annunciando a uno stralunato tenente Nunally, già amante della vittima (e se la polizia avesse inviato qualcun altro a indagare?): “Ho ucciso mia moglie: lo provi!”. Come se non aspettasse altro che iniziare con lui una partita a rimpiattino. Vano appellarsi a criteri di mero buon senso, né tanto meno applicare il principio di ragionevolezza pure tipico del diritto di matrice anglosassone, il cosiddetto reasonability rule, il cui fine ultimo è proprio porsi domande del tipo: “si sta facendo davvero giustizia?” o “qual è il modo migliore per ottenerla”? E la mente dello spettatore italiano torna incerta ai tanti casi di cronaca nera nostrani, anche recenti, conclusisi con sentenze di colpevolezza anche in assenza di prove schiaccianti, ma sulla base, per l’appunto, di un’ipotesi ragionevole. Come dire, per tornare al paradosso iniziale, che la mucca che nessuno vede non esiste. Se il tema, come si vede, presenta spunti rimarchevoli su un piano di filosofia del diritto, la realizzazione lo è molto meno: caratterizzazioni tagliate con l’accetta (il diabolico mastermind criminale alla Mabuse che conosce a menadito i misteri della psiche umana, il giovane e tracotante avvocato per il quale esistono solo le vittorie, la donna di successo tutta in tiro, il cinico principe del foro, e così via), battute che sembra di aver già sentito altrove (“ognuno ha un punto debole” che, detto a uno in preda a nevrosi da rampantismo , non sembra una gran scoperta) quando non addirittura plagiate (“anche un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno”, il cui vero autore sembra sia H. Hesse) e, sopra tutto, il grande Hopkins ormai immobilizzato nel ghigno sardonico di Hannibal the Cannibal. Insomma, più che cinema d’autore, un buon esempio di manierismo hollywoodiano dalla confezione patinata ma senza anima, con tutti gli stilemi e le ovvietà del legal movie.

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