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Leoni per agnelli

Regia di Robert Redford vedi scheda film

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La recensione su Leoni per agnelli

di spopola
6 stelle

“I soldati britannici sono leoni comandati da agnelli, uomini coraggiosi e impavidi nelle mani di stupidi incompetenti”. Da questa affermazione, fatta da un ufficiale tedesco durante la prima guerra mondiale, trae spunto e origine il titolo di quest’ultima opera di Robert Redford, indubbiamente encomiabile sotto il profilo ideologico e persino “necessaria” per tentare di fare davvero il punto della situazione e definire responsabilità, negligenze, omissioni, complicità dirette e indirette, che hanno reso possibile l’attuazione “consenziente” e maggioritaria, della delirante politica guerrafondaia dell’America repubblicana di Bush, sull’onda emotivamente “pompata” del dopo 11 settembre (e non solo), e denunciare nel contempo anche le matrici che, più o meno consapevolmente, hanno fatto da supporto ideologico (perchè non definirle connivenze opportunistiche?) a questa deriva che ancor oggi, nonostante la fluttuante popolarità del suo fautore, travolge una nazione e i suo presunti ideali (ma purtroppo anche una fetta consistente del mondo intero, creando insicurezze e “dolori” planetari), e un popolo sempre più sbigottito, perplesso e disorientato, ma forse ancora incapace di guardare davvero “in faccia la realtà” (come sta a dimostrare per altro lo scarso successo riscontrato in patria da questa “appassionata denuncia” che sembra destinata a rimanere un inascoltato “grido” minoritario incapace di incidere sulle coscienze). Purtroppo però io trovo che il risultato di questa ammirevole fatica, sia poi all’atto pratico fortemente “carente” per quanto riguarda la realizzazione operativa del progetto, probabilmente a causa di una concezione registica generosamente propositiva, ma troppo verbosa e poco emozionale sotto il profilo del coinvolgimento (potremmo definirla “vecchia e un po’ stantia”). Un apologo politico che è quasi un comizio, si potrebbe allora definire (e che per questo nonostante la profondità dei temi e l’attualità delle argomentazioni dibattute, sfiora a volte persino la retorica) che si sviluppa in tre episodi “autonomi” che forse non riescono ad amalgamarsi fra loro quanto sarebbe necessario, diventando semplicemente “tre facce” di uno stesso problema che si rispecchiano, ma faticano ad “identificarsi” nonostante i riferimenti “temporali”, il comune denominatore dell’evento narrato, e l’attiguità anche “umana” di almeno due segmenti fra loro assolutamente complementari. Si avverte proprio nell’impianto generale, il “desiderio” di risvegliare le coscienze ragionanti (forse disilluse) delle nuove generazioni, ma purtroppo il regista non è stato in grado di trovare il “registro” giusto (il “linguaggio” mediato necessario) per “comunicare” e incidere come e quanto sarebbe stato necessario. Così, lo “slittamento” da un segmento all’altro, diventa un meccanico susseguirsi di eventi, secondo uno schema ripetitivo che si perpetua immutato e che ha pochissimi sussulti anche quando, al di là delle parole che sono certamente necessarie ed appropriate (ma da sole insufficienti a creare empatia), la situazione si tinge della tragicità catartica della tragedia (forse l’unico momento di “effettiva” emozionalità, risulta il turbamento magistralmente espresso con gli stilemi di una profonda commozione che traspare dal volto provato e perplesso quasi “dolorante” di una ancora una volta esemplare Meryl Streep - giornalista rampante capace di comprendere il peso delle proprie responsabilità passate che gli eventi hanno però reso consapevole e disponibile al “mea culpa” facendola diventare operativa su un fronte diametralmente opposto - quando costeggia in taxi - e osserva - il cimitero pieno di lapidi bianche troppo facilmente dimenticate che sono lì a ricordare l’assurdità della guerra, di “ogni” guerra, persino di quelle che qualcuno si ostina ancora a voler considerare giuste e inevitabili). La scrittura, estremamente sobria e misurata, piena di dialoghi da manuale (ma con pochissime concessioni alla “spettacolarizzazione”), avrebbe quindi avuto la necessità di trovare una più specifica linfa vitale attraverso una messa in scena certamente più inventiva, che è invece venuta a mancare (tanto che nonostante la relativa brevità della pellicola che non supera l’ora e mezzo di rappresentazione, si arriva alla fine della visione fortemente affaticati, cosa questa che non è mai un buon segno al cinema). Eppure i temi sono importanti, attuali e prioritari e dovrebbero coinvolgerci così da vicino da risultare “palpitanti”, perché parlano di disagio giovanile, di “disincanto ideologico”; stigmatizzano tutto quanto di “sbagliato” (perverso) ammorba la nostra realtà quotidiana (dai media alla politica); evidenziano come tutto risulti “falso” e pilotato ad arte per addomesticare il cervello della massa e conformarlo alle idee che il potere vuole considerare positive e necessarie (compresa la tragedia delle vittime di guerra che ci privano spesso della migliore gioventù – o anche solo di quella più consciamente impegnata). Finché si tratta di operare con le parole, Redford è bravissimo a gestire quelli che potremmo definire “i paradossi del nostro presente”; intelligente e acuto nel sottolineare il dovere prioritario della moralità assoluta che dovrebbe supportare ogni ideologia (anche governativa); implacabile e preciso nel puntare il dito su molti punti nodali, come quello della sconsiderata pratica operativa della politica estera dei repubblicani al potere (per la verità non molto difforme da ciò che in passato intesero fare anche i democratici di quel paese) e dei limiti e delle responsabilità “pericolose” e perverse della società dell’informazione, due temi che diventano, insieme al lacerato rapporto generazionale fra “padri e figli”, il bersaglio prioritario di questa “denuncia senza reticenze”. Ma sono le immagini (ed è un vero peccato, perché è proprio questo stridore fra i due piani a rendere meno epico l’impatto) che non hanno la stessa energia (si tratta di un film e quello della “visione” dovrebbe essere il privilegiato modo di “comunicare” il “messaggio” e la “sensazione”), e questo, sia nelle scene americane, spesso troppo “statiche”, quasi prive di anima, che sintetizzano senza vivacizzare “dialoghi” senza movimento, che in quelle in Afghanistan, che risultano singolarmente quasi “irreali” (o fortemente “improbabili”) funzionali ma asettiche, come se si trattasse di una “ricostruzione” artefatta per un videogioco, piuttosto che della realtà. Nonostante questi evidenti limiti che non è possibile non evidenziare, l’opera resta però importante e opportuna, conferma la propositiva volontà del suo autore (magari con un pizzico di ingenuità) nel voler testardamente coltivare quella che potremmo oggettivamente considerare, alla luce dei fatti e delle esperienze, una pia illusione (che forse poteva avere senso una volta, ma che adesso risulta fortemente anacronistica), che è poi quella di immaginare che sia ancora possibile cambiare il mondo utilizzando le parole (che nessuno sembra purtroppo saper – o volere – onorare con l’ascolto ragionato e “pensante” come sarebbe necessario). E’ questo obbiettivo primario che lo porta a privilegiare l’ideologia del pensiero, ritenuta l’unica vera arma vincente (pur considerando che a volte quel non volersi lasciare andare alla pigrizia dell’inoperosità, può essere ancora più devastante del disimpegno, come dimostra l’episodio dei due compagni e amici di studi - non a caso un afro-americano e un ispanico, e quindi appartenenti a quelle “minoranze etniche” che sono sempre state la “carne da macello” di ogni conflitto, destinati ancora una volta a diventare le “vittime sacrificali” sulle colline innevate e lontane di quel nuovo Vietnam, di quell’ennesimo eccesso di paranoica follia degli agnelli al potere). Tre storie dunque attraversate da personaggi emblematicamente coerenti con le finalità del teorema: quella dei due ex studenti (Derek Luke e Michael Peña) imbevuti di patriottismo immediatamente accorsi al richiamo alle armi, destinati appunto a farsi massacrare dai Talebani sotto gli occhi impotenti e “asettici” delle gerarchie militari che assistono da lontano, attraverso un monitor satellitare, all’eccidio “in diretta”, quasi che si trattasse di una “ricostruzione” televisiva; quella di un ambizioso senatore repubblicano aspirante alla poltrona di Presidente (un poco più che volonteroso Tom Cruise) che cerca di smerciare a suon di bugie, manipolazioni e ambigue verità, un presunto scoop su una ipotetica nuova strategia “vincente” di opposizione armata, a un’agguerrita giornalista televisiva non più abbindolabile (Meryl Sreep, già sopra ricordata, incisiva e “appropriata” come sempre), e quella dello scontro-incontro fra un professore universitario progressista ed impegnato (al quale da il volto segnato dal tempo e la duttile professionalità dell’esperienza lo stesso Redford) e un suo giovane ma ormai “sfiduciato” allievo (un ottimo, strafottente Andrew Garfield). Un dibattito serrato che ha l’intento di risvegliare proprio nello studente, un interesse per la politica attiva, invogliandolo a mettere davvero a frutto anche in questo campo – nonostante la disillusione – la sua intelligenza e la sua dialettica affabulatoria. La domanda rimarrà ovviamente “aperta”, non ci saranno risposte certe né consolatori sviluppi in positivo, tutto resterà incerto e “incompiuto” (saremo semmai noi chiamati a darci delle risposte al riguardo) ma è chiara ed evidente l’importanza che Redford attribuisce proprio a questa schermaglia quasi filosofica, che riguarda appunto la necessità prioritaria del cambiamento e ne analizza i differenti punti di vista e di approccio, affidando proprio a quell’interrogativo senza risposta, il messaggio (e la speranza) indirizzato soprattutto verso i giovani: sono loro che hanno ora la possibilità – se vogliono e sono determinati a farlo – di “prendere il toro per le corna” e farsi sentire, rinunciando una volta tanto a voltare le spalle per abbandonarsi alla insolenza disillusoria e apatica del “fatalismo” rabbioso ma inefficace, che potrebbe simboleggiare una incondizionata resa all’immobilismo e alla “disfatta”.

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