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Across the Universe

Regia di Julie Taymor vedi scheda film

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Andrea Lavino

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La recensione su Across the Universe

di Andrea Lavino
8 stelle

La polemica, o se preferite lo sconforto, la metto all’inizio.
Ieri ho visto per la seconda volta questo magnifico film in una sala d’essai tutt’altro che gremita.
La mia prima visione s’era svolta a due settimane dall’uscita italiana della pellicola al Pathè di Moncalieri: era l’unico spettacolo della giornata nell’unico cinema che lo proiettava in tutto il Piemonte. Vorrei fissare bene la situazione: in quel Sabato di Dicembre l’unica proiezione di Across the Universe in tutto il Piemonte era quella.
In sala eravamo in 4.
Ci si lamenta tanto della distribuzione, ma in questo caso mi sconforta constatare il totale menefreghismo del pubblico nei confronti di una pellicola della quale i giornali hanno abbondantemente parlato e che è, secondo il mio modesto parere, uno dei film migliori dell’anno appena passato.
Detto questo:
Forse nessun’altro film è mai riuscito in poco più di due ore a raccontare gli anni ’60 in modo tanto esaustivo quanto Across The Universe.
Durante la proiezione davanti agli occhi dello spettatore scorrono con soave leggerezza il nascere della ribellione verso il potere costituito (la famiglia, il lavoro…), il tema del viaggio, la gogliardia nei campus, la scoperta delle sostanze lisergiche, la stagione dell’amore libero, il fermento artistico, l’orrore della guerra in Vietnam, il dramma dei reduci, la contestazione pacifista con le sue utopie che nascono, crescono e vengono disilluse…
E su tutto, a raccontare il tutto, la musica.
E la musica degli anni ’60 SONO I BEATLES.
Il film, come la loro carriera, cresce e si trasforma. Dal grigiore della Liverpool degli inizi fino ai raffinati viaggi visivi della seconda parte sullo schermo scorrono le luci e le ombre di una stagione senza eguali e salta agli occhi come purtroppo solo il peggio di essa, la parte riguardante la guerra, sia riconducibile ai giorni nostri.
I testi del repertorio beatlesiano si trasformano pur restando identici agli originali. Ricontestualizzati cambiano significato e l’idea non solo funziona e convince ma, cosa ancor più sorprendente, non provoca lo sdegno dei “puristi” (e posso dirlo con cognizione di causa).
Ecco allora i personaggi del più grande repertorio della storia prendere vita, anche se non necessariamente in modo aderente alla loro visione originale, I Want to Hold Your Hand diventare una sorta di outing da parte di una giovane lesbica, Revolution una critica all’ipocrisia di certi pacifisti, I Want You l’inquietante partitura dello slogan per la chiamata alle armi dello Zio Sam, Let It Be una toccante preghiera gospel…
Qualcosa si perde perché i brillanti traduttori italiani han ben pensato di sottotitolare le canzoni solo in alcune sporadiche occasioni (della prima strofa di Happiness is a Warm Gun viene tradotta solo la prima frase… mah!).
Gli interpreti sono tutti magnifici e il cameo ironico e divertentissimo di Joe Cocker oscura e ci fa dimenticare l’unico neo del film, la presenza di quell’insopportabile trombone di Bono che ammoscia I Am the Walrus.
E mentre la storia – del film e dei Beatles – termina con un concerto su un tetto, un messaggio universale torna ad impossessarsi della sua semplicissima, devastante potenza, dopo che per anni in Italia qualche genio dell’entertainment televisivo ha cercato di trasformarlo nella memoria collettiva nel jingle di un’odiosa trasmissione: All you need is Love.
Banale, utopico forse, ma nei versi e nella musica di Lennon semplicemente assoluto.

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