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Un'altra giovinezza

Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film

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La recensione su Un'altra giovinezza

di spopola
8 stelle

Youth Without Youth: questo è il titolo originale, e credo che sia particolarmente necessario tenerlo presente nel caso in oggetto, poiché ritengo che si tratti di un elemento tutt’altro che di secondaria importanza: la traduzione imprecisa, non proprio del tutto infedele, si badi bene, ma ben più accomodante nelle sue rassicuranti certezze, che lo fa diventare in Italia Un’altra giovinezza, rende infatti molto meno comprensibile ed evidente, il movimento ispirativo che  penso sia poi alla base della scelta di Coppola e del suo “autobiografismo indotto”, se così vogliamo chiamarlo, identificabile proprio in questa straordinaria suggestione: giovinezza senza giovinezza, una condizione nella quale evidentemente lui ci si riconosce perfettamente, e un “messaggio” preciso (una traccia) per lo spettatore attraverso il quale – immagino – al di là della meccanicità della storia conseguente al trauma che “genera” il dato di partenza, il regista ha inteso veicolare con spudorata “provocazione” e fino dalla presentazione,  che si tratta di un film personale e anomalo, frutto di una necessaria, improrogabile, ritrovata libertà espressiva fuori dagli schemi e dalle convenzioni, svincolata appunto persino dalla sua effettiva età anagrafica, oltre che dal suo precedente percorso artistico, quasi un biglietto da visita insomma che lo ripropone come un giovanissimo “esordiente” di quasi settant’anni deciso ad esplorare nuovi territori, ancora e sempre nell’ambito di un classicismo ormai consolidato, ma con la sfrontatezza e la “disponibilità” avanguardistica, che è poi il coraggio di “osare”, di un ventenne che ha di nuovo voglia di mettersi in gioco a 360 gradi, e che questa e solo questa è una “certezza inoppugnabile” e incontrovertibile. Una ammissione un po’ narcisistica, dunque, decifrabile soprattutto con un’ipotesi nemmeno tanto azzardata in fondo, e cioè che quel maturo professore di linguistica che in un momento particolarmente cruciale della sua vita,  ha preso un colpo di fulmine che lo ha fatto regredire verso un’altra giovinezza, cominciando così a capire nuovi linguaggi e a concepire nuove forme, sia proprio lui, Coppola, o per lo meno che si  tratti di una straordinaria metafora che gli fa da specchio, come poi risulterà molto più chiaro analizzando Tetro, l’opera che segue, distribuita poco e malamente sui nostri schermi proprio in questi giorni, come Segreti di famiglia.

L’impossibilità quindi di realizzare praticamente un progetto lungamente accarezzato, quel Megalopolis che per la sua complessità credo non troverà mai la strada – economicamente compatibile – per consolidarsi davvero e diventare a sua volta un film, ha creato i presupposti per farlo incontrare con questo paradosso stuzzicante (la storia di un anziano uomo ormai in declino, imprigionato dentro le forme di un corpo perennemente giovane e costretto per questo a confrontarsi con l’insopportabile, disumana condizione, dell’eternità infinita che lo sta progressivamente privando del riflesso critico dell’anima). Un outsider certamente, ma che gli consentiva di portare in qualche modo avanti alcune delle idee che stavano alla base di quel lavoro forzatamente “accantonato”, come per esempio l’elaborazione  dei differenti concetti  di tempo e quello relativo alla consapevolezza interiore dell’individuo. Di fronte a questo invito e alla stuzzicante  possibilità di poter finalmente tornare a girare un film autoprodotto, di quelli con budget ridottissimo, e quindi senza “esterne” intromissioni condizionanti, dove tutto è permesso, anche il “rischio”, non c’era certamente molto da tergiversare: era proprio l’occasione propizia per uscire “con clamore” di nuovo allo scoperto da un troppo prolungato isolamento, infischiandosene persino dell’evidente azzardo di un tracciato narrativo particolarmente farraginoso e a tratti persino di difficile decifrabilità. Perché quello che ne è uscito fuori, è un “oscuro” teorema filosofico, o meglio, come da lui stesso definito, “una love story filosofica mascherata da thriller politico”  che intende mette in primo piano “la suprema ambiguità della condizione umana”.

Tratto dal romanzo omonimo (1980) di Mircea Eliade (1907-1986) filosofo junghiano e professore di storia delle religioni, “tradisce” apertamente proprio le sue origini “erudite”, quasi l’esplorazione - o anche l’esemplificazione un po’ contorta - di una tesi, che è poi in fondo e per l’appunto, un’astrazione filosofica bella e buona, quella della contrapposizione fra due concezioni opposte che riguardano il tempo (e conseguentemente la vita) e il suo “trascorrere”, che è circolare per il pensiero orientale, e lineare per il nostro. Difficile per me addentrarmi in una dimensione così particolare e “sconosciuta” (non ho letto il libro, ma credo che una eventuale lettura di quelle pagine, finirebbe per confondere ancor di più la mia mente, e non potrei venire a capo con la necessaria “lucida” chiarezza, dei concetti che l’autore ha voluto mettere in campo). Diciamo allora che “non sono preparato a sufficienza” e me ne duole un poco, ma probabilmente  interpretandolo in questo senso univoco, che poi sarebbe quello di una spy story molto lambiccata e pasticciata con risvolti fortemente esoterici, proprio per la mia già confessata  ignoranza rispetto alla esegesi di una elaborazione di pensiero che mi lascia più che freddo, guardingamente indifferente e soprattutto scettico, mi sarei smarrito inevitabilmente in una confusione inconcludente molto vicina al “caos mentale” che non aiuta certo  una valutazione “oggettiva” di una storia che è soprattutto “creazione visiva” che come tale deve essere giudicata. Meglio fare tabula rasa allora dei pregiudizi e delle ipotesi, e ripartire semmai “semplicemente” dal considerare  quel “processo” interno e personale che riguarda proprio Coppola, e che si identifica con la sua voglia di mettersi nuovamente in gioco con ambiziosa spericolatezza (una prerogativa che è anche necessaria “rigenerazione”), e lasciarsi così trasportare dalla forza delle suggestioni, perchè – comunque la si pensi –  si tratta per più di un verso di un risultato davvero strepitoso che ci conferma, ove ce ne fosse  ancora bisogno e anche con le inevitabili “titubanze” che da molte parti potrebbero essere esposte con più di una ragione,  la statura superiore – gigantesca direi - del suo autore e del suo  coraggioso  “menefreghismo” nel proporre un’opera insolita e  “divergente” come questa che si fonda però su un’idea di cinema potente e assoluta, dove proprio le immagini sono il suo “speciale” valore aggiunto, poiché “riescono a rendere carnali i segni” e a dare un senso alle parole che “sanno scorrere sullo schermo come geroglifici del pensiero, alle radici del quale sta il linguaggio” (Mauro Gervasini).

Possiamo in questo senso dire allora che il suo film è davvero spiazzante e può persino irritare fino alla “negazione” assoluta, che è insomma una pellicola da “prendere o lasciare”, di quella razza rara che in ogni caso non lascia indifferenti e invita ad una seria discussione riflessiva.

Per quanto mi riguarda trovo per questo molto più interessante la  lettura a “chiave”, con i tanti riferimenti evidentissimi alle “influenze” dei miti letterari (quello di Faust, lo sdoppiamento Stevensoniano, il ritratto di Dorian Gray, le leggende “vampiresche” e via discorrendo) che rimandano echi molto intriganti e puntuali da non sottovalutare. Un film insomma girato in “piena libertà” quasi sperimentale, alla ricerca della propria ispirativa giovinezza, a volte fortemente suggestivo, spesso emblematicamente criptico ma sempre magneticamente elettrizzante, che racchiude il suo maggior fascino proprio nel modo in cui è stato girato: una macchina da presa quasi inerte (nel senso che è praticamente sempre immobile, senza carrelli o movimenti di alcun genere, alla Ozu, tanto per intenderci) ma della quale non avverti assolutamente la staticità, anzi! è talmente “mobile” nonostante la fissità a cui è costretto il giovane, talentoso direttore della fotografia Mihai Malaimare Jr., da risultare capace di “movimentare” l’inquadratura – chissà per quale miracolosa alchimia -  fino a farla sembrare a volte persino “pirotecnica”, grazie anche al sapiente montaggio del grande Walter Murch, a cui ancora una volta Coppola si affida – e giustamente – conoscendo perfettamente la statura del suo ingegno.

L’impianto narrativo poi, il movimentato incedere un po’ contorto che diventa anche storia struggente di un amore appassionato ed “impossibile”, si regge tutto sulla splendida prova di un attore del calibro di Tim Roth, suggestivo nei sui mutamenti temporali che spaziano in un arco molto ampio di anni e di età.

Sulla trama

Il protagonista è un maturo professore di linguistica, che, proprio nel giorno in cui ha deciso di uccidersi con la stricnina per l'incapacità di finire il libro al quale lavora da una vita, è colpito da un flmine. Sopravvive miracolosamente all'incidente e con l'aiuto del professor Stanciulescu, scopre  che è ritornato giovane e non solo fisicamente, poichè anche il suo intelletto si è fortemente rinvigorito e ampliato. Braccato dai nazisti che vorrebbero studiare il suo caso, fugge all'estero, e sarò cos' "travolto" dalla riscoperta persino delle emozioni d'amore incontrando una donna che gli ricorda il suo grande amore perduto. Scoprirà poi di avere un suo doppio, e dovrà per questo continuare a proteggersi da tutto e da tutti, anche dalla vita.

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