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Io non sono qui

Regia di Todd Haynes vedi scheda film

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La recensione su Io non sono qui

di ROTOTOM
8 stelle

Sei personaggi in cerca d’autore. L’autore è Bob Dylan e come dice il titolo, I’m not there, io non sono lì. Io non sono qui, in italiano. In ogni caso è assente, giustificato o meno, come ogni grandissimo egocentrico sa essere assente dopo aver organizzato la propria festa. Un Michele che non si chiede mai se si nota di più se manca o se è presente e che non ha bisogno di voltarsi dalla parte giusta per vedere il sole sorgere mentre passa Ecce Bombo, perché il sole sorge sempre nella direzione in cui Egli volge occasionalmente lo sguardo. Tipico dei grandissimi egocentrici. Così, capito questo per Todd Haynes deve essere stato relativamente facile far avvallare tutto il progetto dal menestrello adenoideo. Essere o non essere, ovvero essere tanti senza essere presente, il dubbio amletico si risolve nell’esplosione della personalità del cantante in frammenti sparsi nel Tempo, amalgamati ad una oggettività biografica degli eventi in grado di rendere comprensibile il passaggio da un personaggio all’altro senza smarrire l’identità. Il grande merito di Haynes è quello di essersi allontanato a distanza siderale dal tristo biopic di matrice hollywoodiana, patinato e ossequioso, quello delle mimesi antropomorfiche che replicano l’apparenza e fanno vincere gli Oscar al clone di turno. I sei personaggi che interpretano Dylan sono la sua manifestazione al contatto col mondo, una reazione chimica tra il Tempo e l’Arte che lo attraversa connotandolo pesantemente, inquinandolo della propria presenza e subendo egli stesso, Dylan, trasfigurato nella sua arte, la mutazione schizofrenica di personalità in personalità. Così assistiamo alla storia del bimbo di colore che sale su un treno merci per andare a trovare il suo cantante preferito in fin di vita. Un piccolo genio della musica che canta un tempo non suo e trova in una famiglia ospitante la via per la prima trasformazione, il presente. Un giovanotto parla della propria arte, intervistato con l’immancabile sigaretta. Poi la conversione a pastore, il trovare Dio di un ispirato Christian Bale. Cate Blanchett offre la prova più convincente impersonando il cantante durante il “tradimento” della musica Folk per abbracciare l’elettrica scossa della musica di contestazione (prova giustamente premiata con la Coppa Volpi in quel di Venezia). Heath Ledger, lo ritrae nella vita privata, accanto ad una sempre splendida Charlotte Gainsbourg. Infine lo si ritrova schivo e sotto falsa identità, come Billy the Kid sfuggito alla pallottola di Pat Garrett, in procinto di sganciarsi dall’inedia in cui è sprofondato per correre ancora a prendere un carro merci e ricominciare tutto da capo, interpretato da un dolente Richard Gere. Chiusura circolare per un film non lineare, i cui piani temporali si intersecano e la musica li cuce in una stoffa di altissimo pregio. Più che di una storia da capire si ha la percezione di una forma d’arte da intuire, il cronogramma biografico viene smantellato in favore di una frammentazione artistica, fisionomica e temporale capace di evocare la personalità contorta, scontrosa e geniale del cantante senza palesarla. Questo trattamento intellettuale della materia risulta a volte distaccato e giustamente freddo, non c’è genuflessione nei confronti dell’oggetto del documentario, non c’è divinazione verso l’icona e consacrazione alcuna a favore dei posteri. E’ Dylan oggi, La somma di tutto quello che è stato. L’inganno dei biopic, soprattutto quelli “necrofili” che suonano come coccodrilli filmati ad arte, che fissano nell’immaginario collettivo a futura memoria la somma delle azioni e delle caratterizzazioni dell’artista, viene svellato, stravolto e reimpastato in un caos artistico fatto di immagine sporche, livide, testimonianze fake (Julianne Moore aka Joan Baez), una scelta musicale non convenzionale rifiutando il confronto con i classici privilegiando pezzi evocativi le varie epoche, i vari Presente che il film riprende. Il ritratto figurativo viene sostituito da l’inafferrabile tratteggio impressionista, rappresentando l’inafferrabilità di Dylan stesso in quanto parziale essere mutevole, capace di essere tante cose da afferrare solo una ad una. Una parte di Dylan seppure si pensi di averlo stretto in mano e capito, non sarà mai lì. La ricerca continua però, l’inserimento nel novero dei papabili vincitori il Nobel per la letteratura è cosa di questi Tempi. Di questo Presente, un altro tassello da aggiungere a posteriori, quello di un artista che nonostante la ritrosia vede sempre il sole sorgere dalla propria parte.

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