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Io non sono qui

Regia di Todd Haynes vedi scheda film

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La recensione su Io non sono qui

di scapigliato
8 stelle

Todd Haynes si riconferma abile ri-decostruttore di carriere/vite musicali. Con questo pseudo-biopic sul menestrello di Duluth “alias” Bob Dylan, il regista di “Velvet Goldimine” reinventa su un piano letterario e visionario, attraverso un film squisitamente antinarrativo, il significato della vita musicale di Bob Dylan. Già i titoli di testa sono lapidari: “ispirato alla musica e alle vite di Bob Dylan”. Sì, di vite si parla. Non solo quelle che metamorficamente il cantautore USA ha attraversato nei suoi fin qui 45 anni di carriera, ma soprattutto quelle del suo pluralismo artistico e creativo, radicato nella varietà americana. Si parte con un tenerissimo e azzeccatissimo piccolo hobo di colore, che salta e scende dai treni continuamente e che farà capolino, dapprima all’ospedale dove è ricoverato il Mito Woody Guthrie, e più avanti nel West bizzarro del segmento finale. Il piccolo attore, Marcus Carl Franklin, è di un’invasione disarmante. Ha una padronanza delle emozioni da grande uomo vissuto. Ed è con lui che viviamo il momento più toccante dell’intero film, oltre quello con Richie Heavans (per chi scrive almeno): quando all’ospedale di Woody Guthrie, il piccolo piange e gli suona la chitarra. Segue il Christian Bale dell’uomo tradito, il doppio del Dylan che sarà, quello del folk che muta e mina i consensi. Poi arriva il momento beat, incarnato da Cate Blanchet che lo rende mimeticamente algido. Il più rassomigliante delle sei declinazioni haynesiane. É il Dylan anti-folk, quello controverso e contestato; quello visionario e lucidamente più allucinato in posizioni e visioni del mondo. In un bianco e nero finissimo, l’attrice dà al cantautore americano i segni della differenza e del dissociato, mentre il regista lo tratteggia su di uno sfondo appunto visionario, malato, dall’impatto visivo fisiologico. Arriva così il Dylan personale, quello della crisi famigliare, portato sullo schermo da Heath Ledger. Duro, secco, rozzo, cinico. Il suo è un Dylan che si cerca e si lascia: lo dimostra il gioco di sovrapposizioni che vede Ledger interpretare Dylan nei panni di Robbie che interpreta Jack Rollins, ex-Dylan interpretato da Bale. E intanto tutto si confonde, si intreccia, si apre e si richiude su stesso, per finire poi dalle parti del Missouri dove un vecchio Billy the Kid, incarnazione dello stesso Dylan, e interpretato da Richard Gere (altre sovrapposizioni), cerca la fuga e poi la trova. S’imbatte nel piccolo hobo di colore e più avanti nella sua impolverata chitarra con scritto sopra “Questa Macchina Uccide i Fascisti”, lasciata dimenticata persa su un treno. E il Gere che si muove in un West bizzarro, di saltimbanchi de-griffati, icone della controcultura seventies americana s’imbatte in un vecchio Pat Garrett/Mr. Jones/intervistatore della BBC che ha come missione la distruzione del Dylan intrastorico. Ma non vi trova la morte. Bensì un treno, come all’inizio, e se ne va.
Un film impalpabile, onirico, con sprazzi di vero lirismo e altri di forte manierismo. Un film sconclusionato, ma nel senso buono. Nel senso che non definisce. Che non spiega. Non incasella e ingabbia l’opera di Dylan. Non la etichetta. Per questo il film di Todd Haynes, che non è un capolavoro perché il capolavoro è Dylan stesso, resta un documento importantissimo sul più grande di tutti: il menestrello del rock, titolo etichetta che adesso abbare inutile. Non un documentario, non un biopic tradizionale. Un arcipelago di vite e registri, di stili e visioni, che sono allo stesso tempo cronaca e documento di un Paese e il suo primo Artista, e ipotesi esistenziale di un’arte nelle sue varie declinazioni. Un Mito, Dylan, che trova il giusto riflesso mitico in un film in cui le coordinate del Mito vi si perdono, si inseguono, si sovrappongono, vanno in musica.

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