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Grindhouse. A prova di morte

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su Grindhouse. A prova di morte

di Raffaele92
5 stelle

Forma e sostanza coincidono quasi sempre nei film di Tarantino, il geniale cineasta che ha reinventato il noir e il gangster (“Le iene” e “Pulp Fiction”), omaggiato la blaxploitation (“Jackie Brown”), riscritto la Storia (“Bastardi senza gloria”) e affrontato il tema dello schiavismo resuscitando di fatto il genere western (“Django Unchained”). Per non parlare poi di “Kill Bill”, una poesia senza parole né etichette.

Ma nel suo “A prova di morte” c’è qualcosa che non funziona del tutto.

Nella prima parte, sublime e indescrivibile, Tarantino dimostra non solo di aver capito il genere che sta omaggiando e idolatrando (il cinema “grindhouse”, che non è propriamente un “genere” ma mi accingo ora a chiamarlo così per semplicità), ma lo eleva a una poetica e uno stile che sono tutte farina del suo sacco.

Tre delle sequenze più memorabili della sua intera filmografia si trovano nei primi cinquanta minuti:

1-      la sequenza della lap dance

2-      la sequenza dell’incidente, che ci verrebbe voglia di rivedere seduta stante almeno altre tre volte nonostante (e qui sta la sua grandezza) ciò accada già.

Per non parlare poi della strizzatina d’occhio (che solo il cinefilo più “incallito” è in grado di cogliere) a “Telefon” (1977) nella frase pronunciata dal killer. A proposito di quest’ultimo, quella di Kurt Russell è più di una performance: è una rinascita. L’attore gigioneggia in un corpo vecchio, tumefatto, inadeguato, quello di un freak che cerca disperatamente di elevarsi a icona.

Poi accade qualcosa: dopo la scena menzionata nel secondo punto, il protagonista/antagonista passa in secondo piano. In quel magnifico schianto qualcosa di quel personaggio è morto: la sua virilità, il suo fascino, il suo seducente lato oscuro. Perché Tarantino, inaspettatamente, stravolge la narrazione e pugnala lo spettatore dietro la schiena, tradendo di fatto le sue aspettative e l’immagine che egli (tutti noi spettatori) si è fatto (ci siamo fatti) del suo cinema fino ad ora.

Dilata la trama inutilmente inserendo un interminabile dialogo (quello delle tre ragazze) che ha luogo attorno a un tavolo: una sequenza del genere, come ben sappiamo, è il suo marchio di fabbrica. Ma se nelle altre pellicole del regista essa aveva un valore tanto narrativo quanto ludico (è proprio in questi finti tempi morti del suo cinema che forma e sostanza arrivano a coincidere), qui non ha ragion d’essere e si fa portavoce di un vuoto, la mancanza di qualcosa da narrare, da raccontare.

Si giunge così al fulcro della seconda parte: la ridicolizzazione di un personaggio al cui turpe carisma eravamo soggiogati, lo smembramento di un plot che ci aveva coinvolto.

Tarantino cerca di conferire il suo stile alto e colto a un genere per definizione “brutto, sporco e cattivo”, ovvero quello d’exploitation che tanto andava negli anni ’70 e che è (se così si può dire) tornato in auge negli ultimi anni con i vari “Machete” (2010) e il capolavoro “Planet Terror” (2007) (andando appena più indietro va però menzionato anche “Dal tramonto all’alba”). Forse è questa commistione di registri stilistici che non giova al complesso (e che di sicuro non ha giovato al botteghino e ha scontentato la stragrande maggioranza dei fan di regista).

Una cosa è certa: al centro del suo cinema v’è sempre stata la rivendicazione del ruolo della donna (personaggio forte, attivo e determinato, a partire da “Kill Bill” e arrivando a “Bastardi senza gloria”) nel mondo e nella società, ma qui tale tematica finisce per rivelarsi indigesta cadendo nel caricaturale.

C’è chi di quest’opera potrà apprezzare l’ironia e il carattere provocatorio, la cattiveria cinica e l’assurdità grottesca, fattori indubbiamente presenti ed efficaci. Ma il film in analisi rimane un capolavoro riuscito a metà: l’inevitabile (ma comunque per nulla grave o imperdonabile) piccola falla che macchia anche le filmografie dei più grandi.

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