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Grindhouse. A prova di morte

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su Grindhouse. A prova di morte

di FilmTv Rivista
8 stelle

Le "Grindhouse" erano quelle sale urbane di serie B (sorelle dei rurali drive-in) nelle quali, negli anni '60 e '70, si proiettavano due o tre film a sera, o magari di più, per tutta la notte. Ci passavano gli horror, i sexploitation, gli action, i film di neri, di kung fu, di inseguimenti in auto. La stessa pellicola, spedita da un cinema all'altro, dopo un po' si rigava, saltava, perdeva fotogrammi nelle cabine di proiezione. Esattamente come Death Proof (A prova di morte in italiano), il film di Quentin Tarantino che esce separato da Planet Terror (il segmento di Rodriguez del "doppio programma") e perciò allungato di 20 minuti rispetto alla scarna versione originale. Storia di tre belle ragazze di Austin, Texas, che passano una serata tra un bar, una tavola calda e un giro in auto, e così attirano l'attenzione del solito maniaco, un ex stuntman che batte gli States su una Chevy Nova attrezzata, appunto, "a prova di morte" e che si diverte a massacrare le sue vittime proprio usando il suo veicolo mortale. E poi di altre quattro amiche che, entrate nel mirino di Stuntman Mike, si dimostrano più toste e agguerrite (d'altra parte, una delle quattro fa la stuntgirl: Zoë, interpretata dalla neozelandese Zoë Bell, che "doppiava" Uma Thurman in Kill Bill). Gambe, forme inguainate in shorts, jeans e canotte, capelli, labbra e soprattutto piedi, belli, esibiti: le sette ragazze sono un campionario di feticismo, ripreso a distanza ravvicinata con una complicità felice e solidale. Sotterraneamente (ma non tanto) "femminista", Tarantino si diverte a smontare tutti i simboli del potere maschile, prima facendo a pezzi fidanzati e amanti nelle chiacchiere tra amiche, poi ridicolizzando un anziano sosia di Iena Plissken (lui, Kurt Russell), con la sua auto, le sue cicatrici, i suoi simboli fallici, la sua "divisa" nera, la sua folle sicurezza. E quando mette in mano alle ragazze l'arma maschile per eccellenza, l'auto (nella fattispecie, una Dodge Challenger del '70 uguale a quella di Kowalski in Punto zero di Sarafian), il gioco è fatto. Grindhouse è certamente uno "scherzo", un film costruito sui miti, i simboli, i cliché di una certa, irripetibile, stagione cinematografica, dove il basso si mescola con l'alto (allora era esile il confine tra B movies e nouvelles vagues), Hitchcock con Herschell Gordon Lewis, Carpenter, Leone e Buñuel con John Hough. Ma è un gioco più sottile, generoso e liberatorio di quanto non appaia in superficie, non pura citazione ma rielaborazione. E il viaggio della Sposa continua.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 23 del 2007

Autore: Emanuela Martini

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