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Non è un paese per vecchi

Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Non è un paese per vecchi

di ROTOTOM
8 stelle

C’è chi scappa coi soldi, c’è chi lo insegue. In mezzo tanti corpi e il destino. Attorno, attenti, coesi come non lo sono mai stati, i fratelli Coen partoriscono un film perfetto. La forma è la sostanza, la glaciale realtà che congela i personaggi all’interno dell’inquadratura in un tempo tutto loro, privato, come se al di fuori dello schermo non esistesse nulla e da quello schermo, da quella parziale, delimitata fetta di realtà, non si potesse sfuggire mai. Come se il destino, ( i Coen) dall’alto, avesse voluto mettere a fuoco la vita di Llewelyn Moss (Josh Brolin) sconvolgendola a suo piacimento, per gioco, mettendola nella stessa gabbia con il male incarnato , Chigurh (Javier Bardem) e il bene disilluso e stanco, lo sceriffo Bell ( Tommy Lee Jones) per vedere l’effetto che fa. E fa male. Serratissimo, il film inizia con una ripresa in campo lungo sulle pianure assolate del Texas, per poi stringersi inesorabilmente sui destini dei personaggi senza mollarli più, sballottati da un maelstrom di violenza quasi incomprensibile nella sua ferocia, violenza che non ha nessun appiglio morale su un mondo che cammina sghembo sui calcinacci delle macerie di una società senza etica né possibilità di redenzione. Il film tratto dal romanzo di Corman Mc Carthy, è sostanzialmente il riassunto dell’opera omnia coeniana, apogeo di una poetica trans genere e personalissima in cui lo stile diventa materia, plastica delle immagini sublimate dalla scrittura che non abbisognano di parole, di spiegazione, di narrazione se non per alcune memorabili battute che inchiodano nell’immaginario filmico la parabola del male incarnato e l’ineluttabilità della morte di cui i personaggi sono protagonisti. Sublime film, profondamente maschile nella sua logica autodistruttiva, le donne sono solo di contorno, storia in cui la fine è nota come annuncia al telefono alla sua lepre il killer psicopatico Chigurh, il dispensatore di destino che si sostituisce a Dio e delega ad una moneta le sue scelte, le scelte delle persone che in quel momento abitano il picco più elevato della loro esistenza, di fronte all’ineluttabilità della morte. Chigurh è il fantasma, un nato morto e risorto per caso a dispensare vendetta, un feto abortito e miracolosamente salvo di un società che non dà scampo. Chigurh è il senso di colpa della società post capitalista, post moderna, post tutto che ha esaurito le definizioni per salvarsi da una realtà demente, quella fallita, laida, disattenta e infettante che abita roulotte dai sogni trasudati in incubi, società che col suo fallimento fa da specchio ai fallimenti altrui e che continuamente intralcia il cammino di una giustizia mostruosa quanto insensatamente purificatrice. Chigurh è Javier Bardem, premio Oscar, obiettivamente meritato, personaggio che sembra ritagliato e appiccicato al paesaggio e del quale non fa parte, così improponibile e terribile nell’aspetto imperturbabilmente ridicolo, l’unico che interpreta le pieghe del tempo e dello spazio, interpreta i segni e le tracce per portare a termine la sua caccia dimostrando di conoscere talmente bene la prevedibilità dell’essere umano tanto da esserne profondamente schifato.
Lo stile secco e asciutto del noir si mischia in un polveroso pulp senza alcuna fiction, lo stile senza stilizzazione mostra la violenza deflagrare fluida, accettata come condizione essenziale del tempo che viene attraversato dai protagonisti e senza la quale nulla si compie, quotidianità che non ha bisogno di spiegazioni poiché ragioni non ne esistono se non quelle dei primordiali istinti di caccia e sopravvivenza dell’uomo che ha percorso tutta la parabola evolutiva ritrovandosi bestia. Sono presenti le immancabili divagazioni grottesche ( il risveglio di Llewelyn in messico con i Tre Amigos che gli cantanto il buongiorno) componenti la cifra stilistica dei fratelli Coen che rinunciano, man mano che il film avanza inesorabile, alla chiusura delle ellissi narrative frammentando il narrato in sequenze sempre più brevi, disperate, nichiliste. Llewelyn Moss, il protagonista muore mezz’ora prima della fine del film (come solo un grandissimo Friedkin aveva osato fare in Vivere e Morire a Los Angeles), fuori campo, finito dalla brutalità senza viso di malviventi qualsiasi. Mostrato solo un attimo a terra senza nessuna concessione all’omaggio dovuto ad un personaggio, un fantoccio manovrato e finito con noia. La moglie pescata nell’ultimo momento in cui dovrà scegliere se Testa o Croce ma la cui sopravvivenza o meno a nessuno importa. Il sogno disperato dello sceriffo Bell, pavido e conscio che lui e tutta la storia tramandata dai suoi antenati sceriffi nulla possono contro questo paese che con i vecchi, con l’etica che ammantava le ragioni dei criminali e con la quale si sarebbe potuto anche scendere a patti, non ha più nulla a che fare. Sogno che chiude seccamente il film, come un colpo improvviso e indolore dell’arma silenziosa ad aria compressa che il killer usa per spegnere le vite altrui, come fossero animali da macello. Menzione per il contro killer Woody Harrelson, ciarliero e anacronistico zittito senza pietà dal più letale e moderno modello di morte mobile Anton Chigurh che non consente alcuna autoreferenzialità letteraria al proprio operato. Chapeau.

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