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Intrigo a Berlino

Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film

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La recensione su Intrigo a Berlino

di michemar
6 stelle

A seguire le recensioni su questo film pare proprio sia esploso il dibattito sulla necessità o meno di aver girato un semplice “omaggio” al cinema di una volta da parte di Steven Soderbergh, come fosse un peccato imperdonabile. A prescindere dal fatto che non lo ritengo davvero un errore, ritengo che un omaggio di questo tipo è pur sempre un tributo e un segno di rispetto verso un’opera, uno stile o un periodo che si è amato. Che poi l’eclettico regista non sia riuscito a confezionare un prodotto perfetto è un altro discorso. E anche su questo sono in disaccordo con chi ha dato giudizi severi, perché a mio parere il film merita in ogni caso la sufficienza piena.

 

Soderbergh ha pescato a mani piene nel cinema degli anni ’40: il rapporto d’aspetto, la fotografia in bianco e nero e la scenografia ci trasportano rapidamente nel mondo del cinema che fu, ma due particolari mi hanno fatto venire in mente un capolavoro del dopoguerra. Uno è la cupezza del colore, il nero preponderante, la luce che spesso viene dal basso o dal lato e l’altro è la ricerca affannosa nella trama di un personaggio tanto misterioso quanto inafferrabile, un fantasma, una figura che non si sa bene se vive o se è morto sotto i bombardamenti degli alleati su Berlino. Il riferimento di cui scrivo è Il terzo uomo, quel capolavoro di Carol Reed scritto dalle menti geniali di Graham Greene e Orson Welles. In entrambi i film si cerca una persona che entrambe le forze militari vincitrici della guerra ritengono pericolosa e che voglio eliminare o far tacere; la figura femminile è innamorata perdutamente del ricercato e persino morirebbe per lui; poi c’è il terzo personaggio che fa da filo conduttore e da narratore e rischia continuamente l’incolumità personale essendo sempre al centro delle parti “non amiche”.

 

 

 

Certo, il paragone non regge assolutamente col capolavoro del ’49. Qui non avvertiamo quella tensione del film di Reed in quei primissimi piani sui piedi o su una parte del faccione di Harry Lime/Welles, che tra l’altro si nascondeva nelle fogne proprio come l’Emil Brandt di Soderbergh; la pur splendida Cate Blanchett non regge il raffronto con la bellezza folgorante di Anna Schmidt/Alida Valli (che somiglianza dei cognomi nella trama, eh?); infine George Clooney, che se la cava discretamente, non è alla pari dell’indimenticabile disilluso e scettico Holly Martins/Joseph Cotten. L’atmosfera del vecchio film insomma rimane irraggiungibile. Ma nell’insieme questo non mi è dispiaciuto e mantiene una discreta attenzione dello spettatore, nonostante la storia appaia a volte prevedibile come frequentemente succede nel genere mélo a cui appartiene questo film.

 

 

Scontato l'accostamento del finale a Casablanca, è troppo facile il parallelo, ma in questa scena è lampante la citazione

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