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Innamorarsi

Regia di Ulu Grosbard vedi scheda film

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La recensione su Innamorarsi

di MarioC
7 stelle

Nel 1984 (anzi 1983, come può evincersi dalla scritta effigiata su una delle buste della “fatale” libreria Rizzoli) Robert De Niro e Meryl Streep sono all’apice della carriera e della popolarità, temprati da maiuscole prove d’attore, lanciati lungo il crinale del successo mondiale, cementati da un’alchimia che, sin dai tempi de Il cacciatore, era apparsa evidentissima e mirabile, come si conviene a dei fuoriclasse che, accantonando un ego si suppone smisurato il giusto, si fanno collaborativi per il bene del prodotto finito. Ad Ulu Grosbard, regista carneade sulla cui riconoscibilità nessuno azzarderebbe alcuna scommessa, bastò metterli dinanzi ad una macchina da presa, per nobilitare un soggetto ed una sceneggiatura che rimasticavano vari luoghi comuni sull’amore romantico, e sul sentimento, tutt’altro che riposante, di quell’amore, e che pure presentavano alcuni aspetti di novità (anche sufficientemente scaltri) che, uniti alla grandezza degli attori protagonisti, ne fecero un prodotto per molti versi indimenticabile.

 

 

L’incontro tra due persone in una New York vestita a festa per il Natale. Il caso, che si accanisce nel far percorrere le stesse strade, gli stessi ambienti, la necessità che trasporta due anime oneste, lige al dovere, capaci di guardarsi allo specchio con occhio abbastanza tenace, nel vortice caduco di un irreprimibile sogno. Questo è, in sintesi estrema eppure fedele, Innamorarsi. Null’altro che non fosse già stato visto e sentito, lo script di una storia d’amore e dei conseguenti avvenimenti che ne sono, al contempo, satelliti, corollari, appendici di desideri e sensi di colpa. Il senso di colpa è il primo elemento che pervade di sé il film e gli conferisce una luce diversa, più struggente ed oscura: una patina flou sulla gioia, una melassa di pensieri che si oppone alla fluidità dei sogni proprio quando sono lì per essere raggiunti. E poi c’è quella che Mario Sesti definì mirabilmente con parole tipo “poetica dell’esitazione”. La storia gira a vuoto su se stessa, non accade mai nulla di definitivo: lunghe rincorse verso l’oggetto del desiderio, l’impossibilità di frenare gli slanci vitali, quindi gli improvvisi rinculi verso quel grigiore esistenziale che pare l’unica possibile espressione di sé (si guardi al personaggio di Harvey Keitel che, nella sua gioia di vivere un po’ frivola, molto necessaria, pare un marziano al più posato e irrisolto amico De Niro). Infine, la non consumazione fisica dell’amore, espediente narrativo non banale, che crea un clima di tensione ed attesa anche in chi guarda e rimescola ogni certezza, ogni previsione di un percorso già battuto mille volte. Se volessimo scendere nell’infido territorio dei cartigli perugini, potremmo dire che l’amore non consumato è l’unico vero amore. Perché ti costringe ad esplorare i sentieri dell’ignoto e delle possibilità non colte, perché riaccende ogni volta una fiaccola che sembra spegnersi, perché impone il confronto con qualcosa che reca, perenennemente, o comunque sino a quell’attimo, la scritta, frustrante ma stimolante, lavori in corso.

 

 

Senza De Niro e Streep, questi elementi potenzialmente interessanti, ed effettivamente alquanto nuovi, sarebbero stati stemperati in un trionfo di banalità, anche di sguardi, espressioni, parole, in altre parole di recitazione. I due mostri sacri, al contrario, aderiscono a quei personaggi regalando loro la notoria e mitica capacità di immedesimazione, il talento di sventagliare, in un solo semplice ciak, tutta la portata di una vita, anche e soprattutto interiore. Innamorarsi è, allora, opera al completo ed assoluto servizio di due genuine genialità attoriali. I primi incontri sul treno, gli imbarazzi, gli occhi che si abbassano eppure si cercano, la delusione, la gioia, la luce e le tenebre affidati ad un impercettibile cambio di mimica: Robert e Meryl lo sapevano, che avrebbero dato vita a due figure della middle class non facilmente obliabili, a due prototipi di vittime dell’amore che seppure, in tempi come gli attuali, paiano anacronistici, sono e resteranno tra le tante icone di una umanità che non ha paura di lanciarsi nel fuoco, pur sapendo di essere abbastanza inadatta a non bruciarsi.

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