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Incontri ravvicinati del terzo tipo

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su Incontri ravvicinati del terzo tipo

di LorCio
8 stelle

Incontri ravvicinati del terzo tipo è il sogno che si materializza su pellicola, la possibilità che l’immaginifico si trasformi in realtà. Si basa sulla “curiosità” fondamentale dell’uomo, ossia sull’eventualità che nell’universo ci siano altri. L’altro è quindi il tema principale del racconto? Non sempre, perché prima degli “altri” c’è la narrazione del “noi”. L’uomo terrestre nelle sue nevrosi generate dal dubbio è rappresentato da Spielberg con partecipe distacco, ma a sua volta il terrestre si divide in due categorie: i privilegiati al dialogo e gli altri. Ai primi appartengono i protagonisti del racconto: l’autore non è totalmente identificabile con Roy – un po’ troppo perso in se stesso nella prima parte, piuttosto è rintracciabile a Lacombe e alla sua travolgente (adorabilmente infantile) voglia di scoprire. Non è un caso che abbia affidato la parte a François Truffaut: il regista francese fu colui che meglio riuscì a raccontarei bambini; chi più di lui poteva impersonare uno scienziato (sostanzialmente un bambino che non vuole crescere perché troppo legato all’immaginario infantile, ma non per questo immaturo – tutt’altro) che dà anima a corpo per raggiungere l’annoso obiettivo dell’incontro con “l’altro”?

 

 

D’altronde anche lo Spielberg di certi film (questo, E.T., Hook, A.I. ed altri) è un bambino che si ostina a non voler crescere per buona parte del film, salvo poi imbattersi in quel segnale che sancisce l’ingresso ad una nuova fase della vita. Sono sempre racconti di formazione: qui lo spannung è la seconda parte, che si succede ad una prima dove la confusione mentale inevitabile è riconducibile alle atmosfere dell’attesa. Nel segmento finale, che parte dall’avvistamento della navicella spaziale, c’è l’atto della crescita, la consapevolezza di contare qualcosa al mondo. Eppure è difficile parlare di Incontri: è un film misterioso. Sì, il mistero della vita lo avvolge con potenza. Illuminato da luci inquiete e indecifrabili che conferiscono un valore ancora più elegiaco all’opera, è anche pervaso da un pessimismo strisciante e mai urlante, concepito perché c’è una certa diffidenza e rassegnazione verso il mondo umano, che non è composto da soli Roy o da soli Lacombe. Chissà perché la popolazione aliena è fatta di soli extraterrestri bambini (domanda retorica). È l’anticamera di E.T. – ne anticipa il tema di fondo – ed è l’altra faccia del contemporaneo Guerre stellari, più fracassone e finanche chiaro, rispetto a questo segreto utopistico realizzato con sincera passione dal fantasioso e puro Spielberg. Che invidia, come Lacombe, chi fa il grande incontro.

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