Regia di Neil LaBute vedi scheda film
In pochi lo conoscono o l’hanno visto. Ma tra quelli che hanno avuto il piacere (“fortuna” non mi sento pienamente di dirlo) di vederlo, sono ancora meno a sapere che si tratta di un remake del grandissimo “The Wicker Man” del 1973.
Alcuni fan del cult di Robin Hardy hanno storto il naso parecchio di fronte a questo rifacimento di Neil LaBute.
Invece mi sento di definirlo un remake riuscito. Assolutamente non al livello dell’originale, però. Questo poiché “Il prescelto” possiede molti dei difetti tipici del cinema americano di oggi: l’impellente necessità di trovare scuse e pretesti d’ogni tipo per dare avvio al plot (tutta la parte iniziale antecedente l’arrivo sull’isola) l’eccessivo abuso di flashback e una storia d’amore (passata o presente che sia) che coinvolge il protagonista.
Difetti passabili, che non appesantiscono il film (anzi, a dire il vero l’incidente iniziale è un bel colpo di scena). Ma non sono tanto quelli a renderlo inferiore all’originale, quanto la mancanza di quell’ironia genuinamente british che caratterizzava il primo e sotto alla quale però si nascondeva un’atmosfera malatissima e grottesca con sottofondo folkloristico, quella dirompente carica innovativa che osava addirittura buttarsi in slanci pseudo-musical (la meravigliosa sequenza della seduzione da parte di Britt Ekland), nonché i riferimenti politico-sociali del precedente (l’agente di polizia come mente razionale colonizzatrice di un mondo arretrato).
Insomma, diciamocelo poi: manca anche Christopher Lee! Assenza non giustificata, dal momento che trenta anni in più (circa) sulle spalle non avrebbero fatto differenza alcuna alla luce del ruolo che avrebbe dovuto (tornare a) coprire l’attore. Al posto suo stavolta c’è una donna (!), l’Ellen Burstyn de “L’esorcista”. Pazienza. Non si può avere tutto.
In compenso, però, c’è un bravissimo Nicolas Cage, perfettamente calato nella parte.
In definitiva un prodotto standard ma efficace, non scontato, graziato da quelle piccole variazioni (l’idea delle api, solo per citarne una) che giovano ai remake in quanto – se sapientemente sviluppate come in questo caso – rispondono alla necessità di non renderli delle mere copie smorte dei loro predecessori.
Carino anche il finale di chiusura nel disco-pub, dove un’inaspettata sorpresa di cast si presta ad essere l’ultima (ma in realtà la prima di tante) vittima sacrificale.
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