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Slevin. Patto criminale

Regia di Paul McGuigan vedi scheda film

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La recensione su Slevin. Patto criminale

di scapigliato
10 stelle

Dopotutto cos’è il Cinema? È l’applicazione della mossa Kansas City. La Kansas City Shuffle che fa da leit-motiv e da colonna sonora a Lucky Number Slevin, Slevin numero fortunato, da noi solo Slevin. Patto Criminale. Comunque sia, un capolavoro. Capolavoro di sceneggiatura, di regia, di set-decoration, di montaggio e soprattutto di performance attoriche.

Cos’è la mossa Kansas City? Loro guardano a destra, tu vai a sinistra. Ma loro chi? Non fare troppe domande. “E dire che allora…”. No, nessuna domanda, nessun dubbio, nessuna incertezza. La mossa Kansas City è così, fredda, agile, pratica, pura sopravvivenza. Loro guardano a destra e tu vai sinistra. Semplice.

Tradotto: la vita ti fa guardare a destra, il cinema ti fa andare a sinistra. La vita ti propone un modello, un modo, un percorso, una serie di patologie cui attenerti, mentre il cinema ti ricorda che la vita può essere diversa, te la sintetizza e rappresenta a lato, a margine, e te la spiega, o almeno ci prova. Visto? Loro guardano a destra, e tu vai a sinistra. Così ecco che il film di Paul McGuigan esemplifica alla lettera questa filosofia lebowskiana di furba sopravvivenza, postulando che per stare al mondo e sopravvivergli devi andare a sinistra mentre la massa, i censori, i governi, i poteri forti, le chiese e gli uomini che comandano guardano a destra. Non c’è nessun riferimento politico, ovviamente. Soddisfa il fatto che la sinistra è la mano del diavolo, da sempre la parte maledetta del corpo, e quindi in un certo qual modo, rappresenta bene la via di fuga antagonista al pattume reazionario.

In Slevin il regista ci fa guardare verso destra mentre lui invece va a sinistra. Confermandosi maestro dei giochi di specchi, delle sovrapposizioni temporali, dell’atomizzazione della narrazione, del citazionismo hitchcockiano come aveva già fatto e bene in Appuntamento a Wicker Park (2003), McGuigan costruisce un film difficile, tassello dopo tassello, dalla sceneggiatura bizzarra e dalla resa finale difficoltosa, piena di rimandi, agnizioni, digressioni, fino ad un montaggio che se non ben calibrato poteva mandare tutto alle ortiche. Il risultato finale è invece un cult movie acclamato, vincitore al Milano Film Festival del 2006 dei migliori premi sulla piazza - film, regia, attore protagonista a Josh Hartnett e montaggio.

La storia del povero indifeso Slevin Kelevra, appunto Josh Hartnett in stato di grazia, il ragazzo sbagliato nel posto sbagliatissimo per sua personale ammissione, la vediamo snocciolarsi sotto i nostri occhi e frammentarsi in più particelle che coinvolgono sempre più personaggi, molti dei quali caratteri a se stanti, capaci di protagonizzare un film nel film. Tant’è che tra le scene tagliate dal montaggio finale, ci sono delle vere e proprie chicche di tarantiniano non-sense, dove personaggi che nel film sono poco più che comparse si godono i loro minuti di pura gloria in quello che può ben essere un cortometraggio autonomo interno al film.

Questo è solo uno dei molteplici aspetti formali che fanno la felicità del film. La frammentazione della storia, il complesso sistema dei personaggi e i loro articolati legami, le varie direzione che prende la trama sotto il nostro sguardo affamato, che già formalmente sono una sfida vinta grazie alla perfezione della regia, impongono che anche un secondo aspetto formale, il linguaggio cinematografico, sia studiato e concepito in modo da esaltare il labirintico castello narrativo. Ecco che lo sfasamento dei piani temporali - quello che vediamo è adesso o dopo o prima? - e delle percezioni spaziali - quello che vediamo è qui o altrove? - non solo gioca a depistare la percezione dello spettatore per coinvolgerlo nella partita, ma è esso stesso uno sfasamento tale che simboleggia grammaticalmente da un lato l’articolazione della storia e dall’altro, più inconsciamente e filosoficamente, simboleggia l’imprevedibilità e il caotico divenire degli eventi di una vita. Nulla è casuale, o forse sì, ma nella sua presunta casualità c’è un ordine magmatico che le scorre sotto e ci porta a fare quello che dobbiamo fare, percependolo come un caso, come qualcosa di fatale - nel senso di fato.

Allo stesso modo, il montaggio visivo e quello sonoro, accompagnano questa estraniazione sbalordendo lo spettatore ad ogni risvolto. Tutto è ben misurato, calibrato al massimo, per rendere nel migliore dei modi l’efficacia del plot e restituire al fruitore un gioco che sembra solo un gioco, in realtà  una casa di specchi dove tutto è comprensibile fin dall’inizio, ma solo alla fine tutto si incastra a dovere e tutto viene svelato nell’ordine cronologico che ci riporta alla linearità della vita e della sua percezione.

Anche la set-decoration è uno degli elementi più importanti del film. Per renderlo quello che è, un gioco di specchi e di labirinti interiori che devono necessariamente esternarsi nelle cose del quotidiano tangibile, bisognava adottare degli interni e delle architetture che ispirassero complessità, articolazione, pluralità. Le superfici lucide, riflettenti, delle case-torri-fortificazioni dei due grandi capi malavitosi interpretati da Morgan Freeman e da Sir Ben Kingsley, ricordano la complessità e la vanesia dei loro abitanti, e cozzano con l’opacità degli interni in cui vive Slevin. Un’opacità che però ha la trama fantasiosa di un labirinto. La carta da parati, le fantasie dei maglioni del protagonista, i lunghi corridoi dalle pareti con greche labirintiche molto anni ’60, ci ricordano invece la natura complessa e arzigogolata del personaggio, sempre comunque distinto dai due boss attraverso un’architettura del proprio habitat nettamente opposta.

A chiudere e a perfezionare il film, c’è il cast. Bruce Willis non aggiunge nulla di nuovo al Willis attore che abbiamo conosciuto dopo Il sesto senso (1999), e che continua a piacerci per sobrietà e scelte produttive. La stessa Lucy Liu, piccolo giocattolino erotico tascabile, sprizza entusiasmo per tutto il film e gioca la carta molto pop del detective fatto in casa, in stile Miss Marple, sdrammatizzando la drammaticità del film ancora da svelarsi. Poi arrivano i due villain tenutari del titolo. Il Boss, Morgan Freeman, e il Rabbino, Sir Ben Kinglesy sono sobri e vanitosi nella loro estrema cattiveria. Non ci sono se e non ci sono ma, chi sbaglia muore. Fanno il male per il male, neanche più si curano davvero degli affari, sono solo una copertura per qualcosa che li coinvolge più intimamente: farsi la guerra, ammazzarsi. Per potere? No. Per puro gusto. È un po’ come giocare a chi piscia più lontano. Sono ossessionati dalla scure del nemico, e godono a pensare che l’altro tema la propria scure. Un gioco fallico per soli uomini di potere ormai impotenti. Tutto questo si legge benissimo nelle loro battute, spesso ironiche e pungenti, lo si legge nella vita grama che fanno, rinchiusi in quella torre. Non c’è cattiveria esplicita, non c’è un Bob De Niro come ne Gli Intoccabili che spacca teste con la mazza da baseball per conquistarsi rispetto. Ci sono solo due uomini ricchi che vogliono godere uno della morte dell’altro, ma riescono solo a prolungare la propria impotenza. E questo male per il male sobrio e strisciante come un serpente velenoso alza la testa e morde durante la scena finale. La bellissima resa dei conti finale che vede i due grandi capibanda davvero impotenti, costretti su delle sedie uno dietro l’altro, schiena a schiena, senza potersi nemmeno guardare in faccia. Un a scena che va a fare compagnia ai grandi meeting tra grandi attori, come Pacino/De Niro in Heat - La sfida (1995), Hackman/Hoffman in La Giuria (2003), Eastwood/Hackman in Gli Spietati (1992). Quindi una scena culto non solo per come è stata girata e montata, con le già citate atomizzazioni narrative, sfasamenti temporali e spaziali, ma per come è stata interpretata da tutti e tre gli attori coinvolti. Sul volto di Freeman e di Kingsley si alternano gioia e paura, rabbia e un barlume di potenza criminale. Bel monologo di Kingsley, grande interpretazione di Freeman - uno dei momenti più belli sia dei vecchi cartoni animati che dei film è quando il cattivo alla fine capisce che sta per perdere ma non sa ancora per colpa di chi e pronuncia il mitico “Chi sei tu?” oppure “Tu dovevi essere morto!”. Una bella scena molto teatrale che ha coinvolto due mostri sacri del cinema in un duetto infernale dove impotenza e sconfitta fanno rima con giustizia. Non sono più i grandi e temuti boss mafiosi che tengono in pugno la città, sono ormai alla mercé di quel giovane sgangherato, impacciato e buffo Nick Fisher che in realtà è molto di più. È il misterioso Slevin Kelevra, il re di tutto questo gioco, il re di tutto questo groviglio di vipere e labirinti di specchi, il re, infine, di tutto il parco attori radunato dal regista.

Josh Hartnett, sempre in parte, mai deludente, è qui semplicemente perfetto. Prime time da piacione mezzo nudo, naso rotto, sguardo allupato, e race finale grave, misterioso. Josh è attore bronsoniano. Mezzo Bruce Willis, mezzo Tommy Lee Jones, mezzo Charles Bronson, di quest’ultimo ha tutto. Il fisico, benché l’eroe di C’era una volta il West (1967) fosse più basso e più muscoloso, è quello dell’attore appunto fisico, dell’attore tellurico, con continui riferimenti al mondo concreto, al corpo, al fallo, alla virilità equina. Lo sguardo è quello liquido, magmatico, lavico, nero e informe dell’attore cupo, tenebroso. Piccoli occhi semichiusi, scuri, oscuri, fuggevoli. Solo nelle commedie Josh Hartnett si trasforma in attore solare e gioca col suo corpo senza includerlo nello studio del personaggio. Ma è nei drammi, nei thriller, nelle patologie caratteriali dei suoi personaggi che percepiamo il suo vero valore aggiunto. Josh Hartnett è l’attore granitico. L’attore dolente. Tutto di un pezzo, sa inclinare la sua anima attraverso il suo sguardo lavico. Ascoltarlo in lingua originale si ha la conferma di lui come attore tenebroso. Introspettivo, calmo, pacato, gentleman, Josh Hartnett è archittetto degli interni del suo animo, è un jazzista dalle più sfumature e dai molteplici mood. Non è un caso che ami Chat Baker e che se non fosse attore sarebbe un architetto. Hartnett, in ultimo, come William Holden, è “the body” meglio di chi fa del suo corpo la pubblicità di una palestra. Essere “corpi attorici” non significa esplodere di muscoli ed essere dotati di six-pack, abs e assomigliare a un soldatino di plastica buono solo per essere ammirato e appeso come un poster. Una cosa è il beefcake da copertina che modella il suo corpo per apparire senza essere. Un conto è essere attraverso il proprio corpo, tonico, agile, in piena salute. Josh Hartnett usa, o meglio non-usa, o meglio ancora usa per sottrazione il suo corpo, per utilizzare al meglio l’enigma magmatico dei suoi occhi profondi e misteriosi. Siamo di fronte ad un attore lontano dal gossip, lontano dai riflettori, che sceglie i film cercando un comun denominatore che è la bizzarria, la complessità e la problematicità dell’intero plot. Magari non sempre azzeccherà il meglio, ma lui apparirà sempre come quell’attore maturo e dosato che la sobrietà di tale maturità gli permette di essere. Un corpo, uno sguardo e una voce da attore fisico, granitico, dolente, bronsoniano.

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